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senso comune

Il difficile recupero della sovranità democratica

di Alessandro Volpi

C’è un fenomeno a sinistra particolarmente bizzarro che, usando una metafora calcistica, consiste in una finta a sinistra per poi scattare a destra (se non ricordo male per farlo a Fifa, almeno ai miei tempi, era sx-L1-dx-R1). Questa giravolta teorica, nella sua logica essenziale, consiste nella critica radicale di alcuni aspetti, ritenuti moderati e interni al sistema capitalistico, di un’altra sinistra (oggi normalmente l’oggetto della polemica è la c.d. “sinistra populista sovranista”) per poi virare in una difesa degli aspetti più evidenti dello stesso sistema. Se infatti la sinistra neoliberale (il Pd in Italia) è chiara nei sui intenti, cioè accetta pacificamente non solo la fine della prospettiva rivoluzionaria ma anche del patto sociale che ha garantito lo stato di relativo benessere delle democrazie europee, questa sinistra sedicente radicale in una prospettiva di critica alla via riformista ricade in una convergenza con l’ordine neoliberale. 

Le vie della giravolta sono infinite e anche contraddittorie fra loro, ma normalmente il punto centrale è il tema della “sovranità”. L’esempio paradigmatico di questa torsione è senza dubbio Toni Negri, che del resto incarna la parabola della sinistra nella sua forma più squallida. C’è un passaggio di una intervista a Vanity Fair in cui espone questa logica in maniera cristallina: «Mi auspico che Bruxelles prenda le redini dell’Italia dopo il 4 marzo. Non lo desidero, per me la burocrazia europea è il grande nemico. Però è meglio avere qualcosa, che il nulla più completo. Angela Merkel, fatti avanti…».

Come è noto per il Maître à penser della sinistra radicale la sovranità è un ferro vecchio della politica moderna borghese, il sistema capitalistico globale lo ha superato da tempo, e le possibilità emancipative si trovano in un nuovo soggetto storico, la moltitudine. Il legame territoriale è scomparso e una politica di radicalizzazione della democrazia nel contesto nazionale è non solo impraticabile ma anche reazionario, perché incatena questo nuovo soggetto. Fin qui non condivido, ma seguo la logica. Il passo successivo però è quello dell’articolo succitato: nell’attesa che questi processi sociali su scala globale si compiano meglio essere governati da una burocrazia europea, che almeno è qualcosa. Finta a sinistra e scatto a destra.

Ragionamenti di questo tipo si sprecano nella sinistra radicale, in nome di un vago concetto di internazionalismo contrapposto alla deriva sovranista delle sinistre populiste. La logica è sempre la stessa: la sovranità nazionale è un concetto di destra, Marx ha detto ai proletari di tutto il mondo di unirsi. Al di là del fatto che una prospettiva immediatamente internazionalista era impraticabile anche nella fase trionfale del movimento operaio – che infatti dove ha conseguito qualcosa lo ha fatto attraverso il medium di una politica nazionale, quindi in uno spazio territorializzato – non si capisce oggi a cosa faccia riferimento e dove veda una mobilitazione sociale globale capace di produrre queste trasformazioni. Ma anche ammettendo questa logica come l’unica percorribile ci si aspetterebbe almeno il mantenimento di una rigorosa prospettiva rivoluzionaria. E invece no, dall’internazionalismo proletario si passa direttamente al cosmopolitismo borghese, senza passare dal via. Se la sovranità nazionale è lo strumento della borghesia – cosa peraltro vera solo in parte, visto che le democrazie europee prevedono quantomeno una certa dialettica interna allo stato di inclusione dei subalterni, che diviene un terreno di lotta per l’egemonia – allora sarà meglio il super-stato post-democratico europeo, con un’architettura pensata esplicitamente per limitare la seppur debole (che poi tanto debole non è stata in alcune sue fasi) logica conflittuale interna agli stati-nazione. Meglio un mostro ordoliberale di uno stato democratico, perché più internazionale, come il proletariato del resto. Lo stesso dicasi in relazione al tema del rapporto fra marxisti e keynesiani. Lo sappiamo tutti che i keynesiani sono in fondo un po’ capitalisti, che il capitalismo va abbattuto e non riformato come ci dicono i marxisti. Il problema inizia nel momento in cui dall’accettazione della non riformabilità si passa all’accettazione dello status quo. La logica di fondo è la stessa dei neoliberisti: There is no alternative, e allora tanto vale non provarci perché abbiamo già perso, e una moderata politica espansiva unita all’ampliamento delle tutele del lavoro è un’utopia o al massimo un modo per rinvigorire e riattivare un nuovo ciclo di accumulazione. Il che non significa che il keynesismo sia la soluzione e i marxisti sbaglino, anzi, mi preme ripeterlo, se avessi visto anche una sola di queste Cassandre progettare la rivoluzione contro il capitalismo globale e prendere la via della macchia non avrei nulla da opinare. La verità però è che queste derive sono solo un tentativo estremo di dare una sostanza teorica accattivante alla loro sconfitta epocale, una teologia della fine della storia (o come inerzia o come apocalisse non importa, perché tanto non c’è nulla da fare se non accettare lo status quo) che proietta nei cieli della teoria la misera fine della propria parabola politica ed esistenziale. E la torsione verso l’esplicita accettazione delle forme più esplicite di dominio è solo la conferma di questa torsione nella sinistra radicale che assomiglia tanto, troppo all’altra sinistra, quella diventata direttamente destra, passando dal centro, senza fare la finta. 

Ah! I difensori del “custode della costituzione” di questi giorni ovviamente fanno parte di questo stesso fenomeno, ma non ne parleremo, perché l’attualità politica ad una certa annoia.

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