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Comunità dei liberi, giustizia sociale, discriminazione e revival coloniale

di Stefano G. Azzarà

Non bisogna stupirsi per lo strano ircocervo che sta per nascere. Non bisogna entrare in confusione e non bisogna lasciarsi egemonizzare.

La coniugazione di - eventuali - misure di giustizia sociale all'interno della comunità dei liberi e di forme di discriminazione verso gli esclusi non è un fenomeno nuovo. Tutta la storia degli Stati Uniti, soprattutto nei periodi di progresso sociale come l'era jacksoniana, lo attesta (Jackson era oltretutto il "presidente del popolo" contro le élites). Non si tratta affatto di un paradosso.

Nietzsche, ad esempio, all'inizio ferocemente antisemita, capì ad un certo punto che proprio l'antisemitismo sociale alla Stoecker, con la criminalizzazione di chi è fuori dalla comunità, si accompagnava alla integrazione delle classi subalterne e allo sviluppo di processi di democratizzazione nello Stato bismarckiano. E divenne così un altrettanto feroce anti-antisemita.

È questa tra l'altro la vera ragione della spaccatura del movimento socialista nel XX secolo e non certo l'alternativa riforme/rivoluzione.

Le più recenti dichiarazioni di Salvini sulla necessità di tassare meno chi ha di più - vera e propria teodicea della felicità dei ricchi e sintesi di darwinismo sociale - fanno comunque capire che non di meno tra i liberi ci sono precise gerarchie. La crescente selvatichezza verso i non pienamente uomini serve anche a compensare queste disuguaglianze.

Mantenendo la capacità di fare distinzioni e di comprendere dialetticamente la situazione concreta, e dunque evitando sia il codismo e la subalternità che le criminalizzazioni moralistiche, la sinistra e i comunisti non devono concentrarsi sulla definizione dei limiti della comunità dei liberi (chi ne fa parte?) e sul grado di redistribuzione al suo interno, ma mettere in discussione ogni forma discriminazione. E mostrare ancora una volta le contraddizioni del liberalismo.

Non siamo infatti al fascismo alle porte ma, invece, pienamente all'interno di un liberalismo che non ha più controparti. E che dunque in assenza di attrito è incline a recuperare le proprie forme protoliberali, rimangiandosi tutti i compromessi cui era stato costretto quando è entrato nella democrazia moderna.

L'attuale dibattito sulla "questione nazionale" è allora in realtà proprio un dibattito sui confini della comunità dei liberi, più che sulla sovranità da difendere dal nazismo tedesco o europeo. Questo dibattito cioè individua su chi le classi dominanti scaricheranno i costi della ristrutturazione dei sistemi di welfare nell'epoca del declino del paese e della fine dell'universalismo statale. Toccherebbe a noi impostarlo in maniera radicalmente diversa da come fanno Lega e 5Stelle.

Tutto ciò conferma infatti che l'attuale fase politica sarebbe del tutto impensabile senza il revival del colonialismo (altro che "invasione"!), che dei populismi reattivi è l'imprescindibile cornice. Senza una messa in discussione del neocolonialismo, nessun discorso sensato e autonomo sulla questione nazionale può essere fatto, come la tradizione cominternista insegna.

"... La netta linea di demarcazione, tra bianchi da una parte e neri e pellerossa dall’altra, favorisce lo sviluppo di rapporti di eguaglianza all’interno della comunità bianca. I membri di un’aristocrazia di classe o di razza tendono ad auto-celebrarsi come i «pari»; la netta diseguaglianza imposta agli esclusi è l’altra faccia del rapporto di parità che s’instaura fra coloro che godono del potere di escludere gli «inferiori»...".

da: Domenico Losurdo, Controstoria del liberalismo

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