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la citta futura

Il conflitto capitale-forza lavoro

di Renato Caputo

La contraddizione e il conflitto fra capitale e forza-lavoro è destinato a rimanere centrale sino a che dominerà il capitalismo

Fra i vari tavoli in cui si articolerà la discussione della assemblea nazionale di Potere al popolo! (PaP) in programma il 26 e 27 maggio, ve ne è uno denominato Capitale/Lavoro, che avrà luogo in contemporanea ad altri dedicati a “Europa, migrazioni, internazionalismo, pace”, “Welfare e diritti. Sanità, istruzione, inclusione, con focus sulle lotte e iniziative in corso” e, infine, “ambiente e modello economico/sociale”. L’oggetto del tavolo capitale/lavoro lascia alquanto perplessi, in quanto appare al contempo troppo vasto e troppo esiguo. In effetti la contraddizione fra gli interessi del capitale e quelli della forza-lavoro rappresentano certamente la contraddizione principale all’interno del modo di produzione capitalistico, alla cui luce, tutte le altre problematiche andrebbero affrontate, dal problema dell’immigrazione, a quello del Welfare, dalla sanità, all’istruzione, dall’ambiente al modello economico/sociale.

Basta appena richiamare l’abc del marxismo e del materialismo storico, ovvero che la storia di ogni società divisa in classi è storia di lotte di classe.

Se, dunque, è il conflitto sociale a essere il motore della storia, nella società a capitalismo avanzato la lotta di classe tende progressivamente a ridursi al confronto fra i possessori, in modo sempre più monopolistico, dei mezzi di produzione, i grandi capitalisti, e gli individui che non hanno null’altro da vendere che la loro forza-lavoro come merce, del più infimo valore, per potersi riprodurre come classe sociale: il proletariato urbano o moderno. Ecco che allora l’Europa reale, quella fondata sui trattati ultraliberisti di Maastricht, non è altro che un comitato per la gestione comune degli affari della classe dominante, ovvero del capitale finanziario, che deve il suo potere, i proprio privilegi e la sua stessa sopravvivenza alla capacità di mantenere subordinato i proletariato moderno, per poterlo sfruttare al massimo in funzione dei propri profitti.

Anche la questione dell’Internazionalismo non può che essere considerata nella prospettiva dell’unità dei lavoratori salariati di tutto il mondo, unica possibilità per rovesciare gli attuali rapporti di forza su cui si fondano il dominio e i privilegi della classe dominante, dell’alta borghesia. Si tratta, inoltre, della prospettiva cui deve richiamarsi necessariamente il proletariato per contrastare tutte le varie forme di populismo demagogico di cui si serve il blocco sociale dominante per mantenere il proprio potere, dall’unità nazionale, al nazionalismo sciovinista, fino al razzismo. Si tratta di miti politici che hanno avuto e hanno tutt’ora una valenza decisiva per far perdere di vista ai subalterni la necessità di contrapporre la lotta di classe dal basso, alla lotta di classe dall’alto che, altrimenti, finiscono per condurre unilateralmente le classi dominanti, inducendo il proletariato a dividersi su base nazionale, religiosa, etnica o di genere. In tal modo si favorisce la devastante guerra fra poveri, che impedisce agli sfruttati di far fronte comune contro gli sfruttatori e mettere in questione il loro sempre più ingiusto e irrazionale dominio.

La stessa questione della pace non può che essere riconsiderata da questo punto di vista, ovvero “pace fra gli oppressi e guerra agli oppressor”, come risuona il ritornello di una splendida canzone anarchica: Addio Lugano bella. È infatti evidente che chi detiene il potere – economico, politico, sociale e militare, come oggi il grande capitale transnazionale – avrà tutto il vantaggio a propagandare la necessità della pace, in primo luogo dal punto di vista sociale ed economico, per impedire a oppressi e sfruttati di mettere in discussione i loro enormi privilegi frutto dello sfruttamento dei subalterni. D’altra parte faranno di tutto per propagandare la guerra fra i popoli e le nazioni, fra le etnie, fra le religioni e le presunte razze, oltre che fra i generi, secondo l’antichissimo modello di dominio fondato sul divide et impera e sulla guerra fra subalterni. Quindi l’unico vero modo per fare terminare la guerra fra poveri, popoli, religioni, etnie, presunte razze ecc. non potrà che essere il condurre sino in fondo la guerra di classe, sociale per modificare gli attuali, ingiusti e irrazionali rapporti di produzione e di proprietà.

Anche la questione del sedicente Welfare e dei diritti non può che essere inquadrato nella cornice della lotta di classe fra proprietari dei mezzi di produzione e proletariato moderno. Una volta venduta sul mercato la propria forza-lavoro, i lavoratori salariati tendono a perdere qualsiasi diritto, dal momento che chi acquistato legalmente la capacità di lavoro altrui ne dispone e la consuma come meglio crede. Dunque, ogni limitazione allo sfruttamento – sia per quanto concerne l’orario di lavoro, il suo ritmo e le mansioni, fino alle forme estreme dello sfruttamento sessuale – è il prodotto della lotta di classe.

Discorso analogo vale per il Welfare, ovvero per il salario indiretto, ossia tutta quella serie di servizi offerti al cittadino gratuitamente, a prezzo di costo o comunque a prezzi calmierati. È, in effetti, evidente che la loro conquista e la loro perdita sono funzione dei rapporti di forza fra le classi sociali a loro volta determinati dai conflitti sociali. Dunque, ad esempio, dopo la storica sconfitta del nazi-fascismo a opera principalmente delle forze comuniste, in grande espansione in tutto il mondo, il grande capitale è stato costretto – anche perché gli extra-profitti legati alla politica imperialista lo permettevano – a fare concessioni più o meno ampie agli sfruttati, a seconda della determinazione a condurre sino in fondo la lotta da parte dei subalterni e dei rapporti di forza a livello internazionale. Non a caso con l’emancipazione dei popoli coloniali, con la crisi di sovrapproduzione che dagli anni settanta investe i paesi a capitalismo avanzato e con il progressivo rovesciamento dei rapporti di forza nella lotta di classe a livello nazionale e internazionale, non solo il Welfare State, ma moltissimi dei diritti conquistati con i conflitti sociali a livello nazionale e internazionale, nei decenni precedenti, sono andati inevitabilmente perduti. Ciò appare evidente, a partire dal nostro paese, nei settori della sanità e dell’istruzione, dove è in atto ormai da anni un progressivo depauperamento delle risorse destinate dallo Stato alla sanità e all’istruzione pubblica a tutto vantaggio dei privati.

Anche per quanto concerne il tema dell’inclusione (sociale) – che “rappresenta la condizione in cui tutti gli individui vivono in uno stato di equità e di pari opportunità, indipendentemente dalla presenza di disabilità o di povertà” – è evidente che la conquista di una relativa pari opportunità, anche rispetto agli extra-comunitari, dipende dalla capacità del proletariato di unirsi e di far valere i propri diritti di contro alla classe dominante che, per mantenere i propri privilegi, non potrà che fare di tutto per scatenare guerre fra poveri. In tal modo, la progressiva riduzione delle pari opportunità e la mancata inclusione negli stessi diritti di cittadinanza dei cittadini extra-comunitari è indispensabile alle classi dominanti per ridurre il proletariato moderno alla antica plebe, che non era classe rivoluzionaria in quanto non aveva null’altro da perdere che le proprie catene, visto che al di sotto di essa vi era la massa degli schiavi e delle donne, oggi in buona parte sostituiti dagli immigrati, senza nulla togliere al riaffermarsi della schiavitù domestica cui si tende a relegare nuovamente la donna.

Il focus sulle iniziative e le lotte in corso dovrebbe, dunque, valorizzare tutti i tentativi di ricostruire un fronte unico degli sfruttati, al di là delle differenze etniche, di genere, di religione e di sindacato d’appartenenza. In quest’ultimo caso, in particolare, sono paradossalmente proprio le “forze di sinistra” a creare degli steccati che impediscono l’unificazione del fronte dei subalterni per favorire l’affermazione del proprio sindacato in costante lotta, prima ancora che con la borghesia, con gli altri sindacati. Il necessario focus sulle lotte in corso, dovrebbe mirare a far prevalere quelle funzionali a sviluppare l’unità e la coscienza di classe fra i lavoratori e la necessità di individuare nell’alta borghesia, nel suo Stato e nella sua società civile il comune nemico da combattere, piuttosto che rivendicare, come fa ad esempio La dichiarazione di Lisbona, i diritti di cittadinanza, che non solo tendono a escludere gli extra-comunitari, ma mirano a favorire l’ideologia dominante che, nelle società liberal-democratiche, occulta dietro l’uguaglianza politica la sempre più profonda diseguaglianza economica e sociale. Si tratta di un’ideologia gratificante e consolatoria, che dà a credere a ogni individuo di avere assicurata la propria identità, fondata sui diritti di cittadinanza propri di chiunque faccia parte della “democratica e civile comunità europea”. Come se si trattasse di una comunità omogenea – la cui identità del resto si fonda proprio sulla differenza e la contrapposizione verso gli extra-comunitari – occultando che al contrario, proprio grazie a tale presunta unità continentale, le sempre più ampie differenze di classe, favorite dalla persistente, anche in forma latente, guerra fra poveri.

La stessa questione dell’ambiente è imprescindibilmente legata alla questione dei rapporti di proprietà e produzione e al conseguente modello di società. Sino a che prevarrà, più che il modello, il sistema capitalista, incentrato su profitto e concorrenza, non sarà possibile porre fine alla progressiva distruzione non dell’ambiente naturale, in sé infinito, ma dell’habitat naturale funzionale alla prosperità e/o alla stessa sopravvivenza del genere umano. Nella guerra per la vita e per la morte imposta dal meccanismo sempre più irrazionale della concorrenza per la realizzazione di profitti privati, non si potrà avere nessuna significativa attenzione a un sano rapporto di inter-scambio con l’ambiente naturale, che sarà al contrario sempre più ridotto a un dominio da sfruttare fino a quando è utile, per poi abbandonarlo alla più assoluta incuria.

Dunque anche al tavolo in cui si discuterà di ambiente e di modello economico/sociale sarà indispensabile partire proprio dalla contraddizione principale, ovvero quella del capitale che, per la necessità di riprodursi in tempi sempre più rapidi su scala allargata, non può che continuare a imporre un modello economico/sociale non solo fondato sullo sfruttamento e sulla polarizzazione della società, fra una minoranza sempre più ricca e una maggioranza sempre più povera, ma incapace di garantire anche quel minimo ricambio organico con l’habitat naturale, da cui dipende nell’immediato il nostro benessere e nel medio periodo la nostra stessa sopravvivenza.

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