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sinistra

Il disorientamento gestaltico e le parole valigia

di Salvatore Bravo

Il capitalismo assoluto non ha solo il monopolio della violenza, ma consolida la gabbia d’acciaio attraverso il controllo delle parole. Noi siamo il nostro linguaggio, il linguaggio ci precede, attraverso di esso diamo significati al mondo, ordiniamo gerarchie, stabiliamo priorità: il mondo è un ordito di parole. Il monopolio delle parole è dunque il mezzo di controllo delle menti come delle conseguenti scelte. Il linguaggio come essere del mondo, del vivere l’esperienza dell’esserci. Le parole sono la struttura della gabbia d’acciaio: l’ordine delle parole investe il soggetto per farne un individuo, un atomo, che vive nella separazione-astrazione, nel contempo mentre gli spazi d’azione del pensiero e della prassi si restringono si allargano gli spazi della gabbia d’acciaio. La libertà come movimento su larga scala è inversamente proporzionale agli spazi liberi del pensare. La grande illusione è la libertà fondata sul movimento, sullo spostamento all’interno di spazi sempre più vasti, ma i cui paesaggi sono irriducibilmente uguali: ovunque albergano le parole del turbocapitalismo. Ci si può permettere il libero spostamento, poiché in media si torna a casa con le stesse parole, con i stessi concetti, con i stessi bisogni. La globalizzazione rafforza a livello ideologico il capitalismo assoluto con la patente della libertà che non spaventa, che non conosce il dubbio, non vi è inquietudine.

Il fine generale non esiste, vi è solo il rafforzamento dell’eguale. Il viaggio era esperienza formativa, l’ozio nel quale il divertimento era divertere ovvero secondo l’etimologia cambiare strada, si assaporavano altre parole, altri sguardi, ci si fermava per condividere altre possibilità comunitarie. Il ritorno segnava il momento in cui l’esperienza vissuta diventava parte della comunità in cui si era radicati. La libertà al tempo della globalizzazione è invece regno dell’eguale, la partenza ed il rientro non comportano spostamenti gestaltici, non vi sono nuove parole significanti, nuove prospettive e rappresentazioni, ma solo un’ innumerevole quantità di immagini da propinare per soddisfare la propria piccola vanità e vincere i conoscenti di turno con la narrazione dei viaggi organizzati. Lo spettacolo, così, si autoriproduce senza nulla imporre, la società dello spettacolo è un enorme accumulo di immagini e spettacoli dal forte plusvalore. Il capitalismo digitale ha fatto dell’immagine la sua verità e la sua merce. Naturalmente in un’epoca di contrazione delle parole, sempre più stereotipate, riproducenti slogan, e imperativi categorici del consumo e del fare per il fare, non sorge la domanda se l’immagine è la verità, se il suo retroscena celi innominabili interessi ed ingiustizie. Il ritorno è così uguale alla partenza, si è solo rafforzato il velo di Maya dell’immagine che separa, divide, atomizza soggetti come le parole usate. Il sole non tramonta mai sulla passività. Dunque le parole in questo caso ordinano l’esperienza ma non l’esperienza vissuta. Walter Benjamin distingueva l’esperienza dall’esperienza vissuta, la prima è puramente passiva, la seconda è mediata dal simbolico. Le parole del capitalismo assoluto educano alla passività, mediante l’esemplificazione dei concetti, contenuti minimi, didattica breve, conoscenze specialistiche, problem solving. Le parole devono essere lo strumento con cui si accede al mondo per saccheggiarlo legalmente. Il tramonto dell’occidente è il tramonto delle parole, al loro posto solo immagini mute e mutile:

Lo spettacolo si presenta contemporaneamente come la società stessa, come una parte della società, e come strumento d’unificazione. In quanto parte della società, è espressamente il settore che concentra ogni sguardo e ogni coscienza. Per il fatto stesso che questo settore è separato, esso è il luogo dello sguardo ingannato e della falsa coscienza; e l’unificazione che realizza non è altro che il linguaggio ufficiale della separazione generalizzata1.”

Le immagini sono percepite ma non vissute, per essere tali devono essere ricostruite nella loro genesi olistica, invece si configurano come fotogrammi dell’astrazione, il cui significato resta a livello descrittivo denotativo. La passività è dunque un mondo di esperienze descritte con le stesse parole. Un immenso accumulo di stimoli visivi non guardati, ma percepiti e mostrati come l’ultimo trofeo per “amici” e “conoscenti”. Il disorientamento gestaltico trova un alleato imprescindibile nelle parole valigie. Le parole nel pulviscolo motorio hanno perso ogni aderenza alla realtà, il loro significato è mosso da una polisemia che disorienta ed annichilisce il significato reale. Parlare, argomentare, diventa inutile poiché ciò che è detto significa sempre altro. L’inautentico separa, avvilisce le energie creative. Società schizoide che spinge verso patologie mentali con i suoi terribili e perenni messaggi contradditori. Lewis Carroll in Attraverso lo specchio descrive le parole doppie, contratte, per cui significano parzialmente e vagamente qualcosa da un corno e altro dall’altro corno. E un mondo doppio in cui il vero ed il falso si confrontano senza la possibilità di accertare con sicurezza la verità. Platonismo del falso. Le parole hanno perso il mondo e con esso la verità. Significano quello che vogliono:

Quest’ultimo verso è troppo lungo per una poesia;— ella aggiunse, quasi ad alta voce, dimenticando che Unto Dunto la sentiva.— Non chiacchierare così sola, — le disse Unto Dunto, guardandola per la prima volta, — ma dimmi come ti chiami e che fai. — Mi chiamo Alice, ma... — Hai un nome molto sciocco! — la interruppe con impazienza Unto Dunto. — Che cosa significa? —Forse che un nome deve significare qualche cosa? — domandò Alice dubbiosa. — Altro che! — disse Unto Dunto con una breve risata: Il mio nome significa la forma che ho io...fra parentesi una forma graziosa e bella. Con un nome come il tuo si può avere qualunque forma o quasi2.”

Si vive in un mondo in cui anche il vero è falso. Lo specchio è lo sdoppiamento, la divisione come fondamento del reale. Tutto può essere interpretato in mille modi, tutto è lecito e legittimato nel regno dell’irrilevanza, il pensiero e l’essere si sono scissi fatalmente, per cui la faglia irrompe nelle relazioni tra i soggetti, rendendo la comunicazione impossibile, delirio collettivo che, ritornando alla gabbia d’acciaio, la rende intrascendibile. Non vi è uscita senza i significanti che corrispondono al significato. La libertà ha come sostanza le parole ritrovate nel loro senso. Se le parole dicono altro rispetto al loro significato, ogni fiducia e razionalità decade. Le sbarre divengono mura, ma non si ha la rappresentazione delle mura, della prigione. Ogni comportamento teoretico è scoraggiato nella gabbia d’acciaio, lo spettacolo per andare perennemente in scena deve restringere il campo della rappresentazione a puro rispecchiamento-adeguamento senza speranza. Nella caverna di Platone, VII libro la Repubblica, la possibilità dell’uscita dalla caverna è garantita dalla struttura razionale del cosmo e dell’essere, la lingua conserva il senso profondo del fenomeno, mentre nella gabbia d’acciaio il politeismo etico, la cultura delle parole valigie rendono il soggetto debole, lo destrutturano in assenza di significati certi e razionali. Ci si lascia trascinare dal nichilismo passivo, si perde il senso di sé, il proprio io come affermava Hume è un palcoscenico in cui avviene tutto ed il contrario di tutto. In tali condizioni la prassi è neutralizzata. Parola valigia è chiamare riforma del lavoro la controriforma, inclusione per omologazione, sviluppo per saccheggio del pianeta, lavoro flessibile per sfruttamento, alleanze per trasformismo… L’elenco è lungo e minaccioso, poiché come detto, destabilizza, indebolisce, deprime. La gabbia d’acciaio si cementifica con le parole valigia. L’esperienza storica attuale si trasforma così in ipostasi, in destino fatale e letale. Dunque dobbiamo ridare significato alle parole per ridare dignità alle persone, per ritrovarci persone e non semplici replicanti di parole incomprensibili. Dobbiamo contrapporre alla confusione ideologica la chiarezza dei significati senza i quali ogni via di uscita ci è preclusa. Senza le parole non possiamo conoscere noi stessi. La maieutica è logos, pratica delle parole contro ogni sofistica. Se le parole tacciono, se il loro significato è manipolato, con esse si perde il soggetto umano. Pensare è rappresentare ciò che non è percettivamente presente. Le parole valigia e lo spettacolo sempre in scena reificano il soggetto umano riducendolo a puro ente, a semplice funzione del gioco perverso della produzione. L’esodo, l’uscita dalla gabbia d’acciaio necessita della profondità delle parole.


Note
1 G. Debord La società dello spettacolo, Millelire Stampa Aternativa, 1995, pag.6
2 Lewis Carroll, Attraverso lo specchio, capitolo VI

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