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sinistra

Dedicato a Domenico Losurdo, intellettuale marxista

di Eros Barone

Proteggete le nostre verità.
F. Fortini, Composita solvantur, 1994.

Come si spiega il fatto che una figura topica della modernità, l’intellettuale, sembra appartenere, se la confrontiamo con l’immagine militante che di esso si era imposta nel secolo scorso, una razza in estinzione? È questo l’interrogativo che sta al centro di una riflessione di Alberto Asor Rosa, storico della letteratura e saggista, il quale, fin dal titolo, definisce il problema testé evocato con un’espressione assai efficace: “Il grande silenzio”.1 In effetti, come sottolinea l’autore di tale riflessione, la figura dell’intellettuale è stata al centro, negli ultimi decenni, di processi professionali, tecnologici, linguistici e sociali molto complessi, che ne hanno fatto non solo una delle figure sociali maggiormente investite dal cambiamento, ma, in un certo senso, l’emblema del cambiamento stesso, dal momento che la conoscenza investe l’intero processo produttivo. Tuttavia, se da un lato tutto ciò ha spinto verso una forte specializzazione dei ruoli svolti dai ‘lavoratori della conoscenza’, dall’altro non deve sfuggire il rischio che il paese sta correndo: rischio che è quello di non avere più figure intellettuali capaci, come è stato capace lo studioso marxista Domenico Losurdo, di andare oltre il proprio sapere specificoe di proporre una visione d’insieme della società: capace di essere, come voleva Antonio Gramsci, “specialista + politico” o, come voleva Mao Zedong, “rosso ed esperto”.

Se questa premessa è vera, occorre allora esaminare l’interrelazione fra quei processi e i caratteri che contraddistinguono la fase politico-culturale che stiamo vivendo in Italia: l’aggressività della destra, il radicamento del populismo, la marginalità della sinistra e la debolezza dell’opposizione. Il corollario inesorabile che discende da questo teorema è, per l’appunto, “il grande silenzio” degli intellettuali, che richiama (credo intenzionalmente) il titolo di un libretto a più voci apparso alcuni anni fa e intitolato “Il silenzio dei comunisti”. 2 Ma se questa sequenza logica e storica è corretta, allora il problema che va posto al centro dell’analisi è proprio il rapporto tra politica e cultura: un rapporto che si è logorato a partire dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso, quando si verificò il rovesciamento di egemonia dalla sinistra alla destra. È in quegli anni che va ricercata la genesi della frattura fra intellettuali e politica ed è sempre in quegli anni che ebbe inizio una sordità reciproca le cui conseguenze furono, da un lato, il venir meno di una tensione verso la cultura che la politica aveva mantenuto viva e, dall’altro, una duplice reazione degli intellettuali, che portò una parte del mondo della cultura a radicalizzarsi, negando il proprio ruolo e proiettandosi nei conflitti sociali, e un’altra parte a rinchiudersi all’interno dei recinti dell’accademia.

Da questo punto di vista, i giovani sono, fra i soggetti della società organicamente interessati alla ricostruzione del rapporto tra la politica e la cultura, non solo coloro che pagano il prezzo più pesante della frattura che è intervenuta, ma anche le vittime principali di quella “dittatura dell’ignoranza”, imposta dal regime vigente nel nostro paese, che ha dato il titolo a un testo di Giancarlo Majorino. 3 Eppure, la politica è una delle forme più alte in cui si esprime l’attività sociale della persona umana. Se questo è vero, la domanda che allora ci dobbiamo porre è la seguente: come far risorgere nelle nuove generazioni la passione per la politica? Trovare una risposta a quest’ultima domanda è senz’altro arduo, se si considera che nel nostro tempo, condizionato dall’effetto congiunto della mutazione antropologica, della ‘rivoluzione passiva’ sottesa alle politiche neoliberiste e della ‘dittatura dell’ignoranza’, non vi sono più quelle figure che erano gli ‘intellettuali militanti’: non vi sono più, ad esempio, i Geymonat, i Fortini e i Losurdo (mi piace accostare questi tre intellettuali marxisti, autentici “lavoratori della conoscenza” ai più alti livelli), uomini che scrivevano per passione e nelle cui parole si avvertiva la forza dello sdegno e del coraggio, insieme con la lucidità che veniva dalla ragione e dal cuore. Scrivevano chiaro perché pensavano chiaro e pensavano chiaro perché dentro l’animo avevano chiarezza morale. L’impressione che si riceve oggi, invece, è che contro quelle figure di intellettuali militanti esista una sorta di avversione, quasi che insegnare significhi soltanto chiudersi nell’isolamento di un’indagine rigorosa o nel formalismo di una lezione impeccabile e non anche essere, come erano questi intellettuali, dei maestri; e maestri non di nozioni, ma di passioni e di convinzioni. Le loro parole cambiavano la vita di chi sentiva quelle parole, e la cambiavano non per un giorno, non per una settimana, ma per tanti anni, perché un libro di Geymonat, una poesia di Fortini o un saggio di Losurdo cambiavano veramente la vita quando trovavano occhi e orecchie ricettivi e ben connessi con la mente. Oggi di queste figure, non solo in Italia ma nel mondo intero, sembra non esservi più traccia.

In Italia, poi, vi è un’aggravante, che è rappresentata da un certo fastidio verso questo genere di figure, considerate polverose, moraliste e appartenenti al passato, mentre oggi, se si è un intellettuale, è ‘politicamente corretto’ essere leggeri, frizzanti, simpatici. In realtà, questa immagine di tipo televisivo non rende giustizia al ruolo pubblico dell’intellettuale. Quest’ultimo non ha da essere sorridente e simpatico ma ruvido e scarnificante; deve avere il coraggio di parlare e di affrontare i temi del suo tempo, sapendo che può svolgere “la missione del dotto” solo se ha passione civile e se decide di battersi all’ultimo sangue contro la ‘dittatura dell’ignoranza’, assumendo in modo programmatico l’identità con cui Tommaso Campanella definiva la propria missione in un’epoca, quella della Controriforma, a cui la nostra epoca sembra somigliare sempre di più: «Io nacqui a debellar tre mali estremi: tirannide, sofismi, ipocrisia».4 La deriva in corso non si può fermare solo con appelli volontaristici, ma già sottolineare che il problema si pone, che bisogna ricostruire un rapporto tra la cultura e la politica, che non si può accettare che le nuove generazioni rifluiscano nel qualunquismo, nel cinismo o nella disperazione, che la morte di uno studioso intellettualmente serio e politicamente impegnato, quale era Domenico Losurdo, 5 depaupera e indebolisce tutta la nostra cultura, e che è quindi ancor più necessario ed urgente dare risposta al “che fare?” della cultura, sono altrettanti passi compiuti nella direzione giusta.


Note
1 A. Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, Laterza, Roma-Bari 2009.
2 AA.VV., Il silenzio dei comunisti, Einaudi, Torino 2002.
3 G. Majorino, La dittatura dell’ignoranza. Il regime invisibile, Marco Tropea Editore, Milano 2010.
4 Tommaso Campanella, Delle radici de’ gran mali del mondo, in La Città del Sole e Poesie, Feltrinelli, Milano 1962, p. 68. Riporto l’‘incipit’, sofferto ma battagliero, della prima strofa: «Io nacqui a debellar tre mali estremi: / tirannide, sofismi, ipocrisia…».
5 Mi limito qui, tralasciando in questa sede la ricca messe di contributi storici, filosofici e politici forniti dallo studioso pugliese, a ricordare un saggio di milleduecento pagine, Nietzsche, il ribelle aristocratico, Bollati Boringhieri, Torino 2014, che costituisce un contributo formidabile alla letteratura critica su questo pensatore tedesco: un saggio non indegno di reggere il confronto con La distruzione della ragione di György Lukács.
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