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Timothy Garton Ash, “L’Europa liberale non è ancora morta”

di Alessandro Visalli

Su The Guardian, l’intellettuale liberale Timothy Garton Ash il 9 luglio ha pubblicato un articolo sulla sfida populista dal suo punto di difensore dell’ortodossia cosmopolita, globalista, chiaramente europeista e liberale, ovviamente contrario ad ogni posizione politica emergente. Proprio da questa radicale posizione spicca nello storico e politologo inglese una diagnosi circa la profondità della crisi in corso e il “pericolo in bella vista”. Segnala una nuova linea di divisione politica, rilevante quanto la vecchia destra/sinistra, capace di creare nuovi schieramenti e dividere i vecchi (ovvero di creare ibridi), ma anche avvicinare posizioni.

All’avvio del suo discorso il raffinato Ash si espone in un esercizio di pensiero associativo: Merkel e Macron sono connessi alla sfera del razionale e quindi a soluzioni liberali, per questo europee, basate sulla cooperazione internazionale, mentre Orban e Salvini sono connessi alla sfera dell’ombra, dell’irrazionale, delle soluzioni “illiberali, nazionali, capro espiatorie, escludendo o espellendo ‘altri’ definiti etnicamente o culturalmente”. Di qui, attraverso una associazione morale Ash identifica con una ciclopica semplificazione dal tono morale una battaglia epocale tra “merkronismus e Orvinismo” che “darà forma alla politica europea nel prossimo anno” rendendo imprevedibili le prossime elezioni europee.

Questa mossa gli consente, non senza ricordare prudentemente che ci sono anche altre fratture (come i disaccordi sull’euro o sul bilancio europeo, che allineano interessi nazionali contrapposti non sovrapponibili allo scontro politico tra liberali e populisti), a dire che questo è “il nuovo gioco in città”. Una posizione simile a quella del nostro Calenda (nel suo Manifesto Politico).

La questione centrale di questo gioco politico è dunque l’immigrazione. Per il liberale Ash si tratta di una questione “allo stesso tempo reale e simbolica”. Ci sono state effettivamente ondate di immigrazione rapide nel 2004, con l’allargamento all’est della Unione Europea, e poi con le crisi nordafricane seguite alle primavere arabe ed alle avventure militari occidentali (si potrebbero ricordare anche le guerre balcaniche). D’altra parte, come dice con bella immagine, “l’immigrazione è anche un problema simbolico, che raccoglie le preoccupazioni sulla cultura e sull’identità come la limatura di ferro su un magnete”. Un sondaggio della Fondazione Bertelsmann, condotto nel 2017, fornisce una schoccante rappresentazione del sentimento degli europei: il 50% su scala europea si riconosce nella seguente frase, “ci sono così tanti stranieri nel nostro paese, a volte mi sento estraneo”. Questo indica qualcosa sull’ambiente di vita di questi europei (dato che l’immigrazione tende a concentrarsi geograficamente ed etnicamente), e sugli italiani che rispondono in questo modo per un incredibile 71%.

Insomma la grande maggioranza degli italiani la pensa così.

Ash qui introduce il tema della sua paura: citando George Dangerfield, autore di uno studio sull’inghilterra nel 1910-14 “The strange death of liberal England” ricorda come nel primo novecento i liberali persero la partita perché non riuscirono a rispondere a nuove forze e sensibilità che si imponevano, il suffragio femminile, il movimento laburista e il nazionalismo irlandese, tutte forze create dal liberalismo stesso. Anche in questo momento sono all’opera forze create da liberalizzazione, europeizzazione e globalizzazione.

Con un lieve mutamento di prospettiva si potrebbe dire che quel che Ash sta evocando è semplicemente un “momento Polanyi”, così detto dal grande libro del 1944 di Karl Polanyi nel quale descrive appunto il crollo subitaneo della mondializzazione liberale di tardo ottocento per effetto delle forze che aveva mobilitato e della reazione difensiva della società sfidata di distruzione da queste. Come scrive, cioè, l’effetto dell’incapacità del capitalismo del lassaire-faire di governare le forze che esso stessa aveva messo in moto e il venir meno quindi dei meccanismi fondamenti del suo funzionamento. L’utopia di autoregolazione senza politica e dissolvendo la società crolla sotto il peso delle sue contraddizioni e del mondo inospitale che crea. L’opinione dell’autore è, infatti, che queste idee siano del tutto errate, che l’individualismo e in particolare la rivoluzione industriale non sia un veicolo di progresso, ma una vera e propria calamità sociale; che il mercato non sia autoregolato, non sia soggetto ad un automovimento, ma sia un’artificiosa costruzione parte di un intreccio funzionale di “istituzioni” (un equilibrio di potere geopolitico, la base aurea internazionale, lo Stato liberale), e alla fine non possa che operare, se lasciato nella sua purezza, per annullare la sostanza umana e naturale della società (che talvolta chiama “organica”); per distruggere quindi sia l’uomo che l’ambiente.

È per reazione a quest’aggressione che “la società” (cioè concretamente le forze sociali che hanno di volta in volta da perdere, anche in inedite alleanze di fatto) si difende, introducendo vincoli e garanzie che sono alla lunga incompatibili con esso e finiscono per provocarne il crollo (descritto negli anni quaranta).

Per Polanyi la popolazione ed in essa le classi sociali e le forze che sono principalmente aggredite e destabilizzate dalla centralità dell’interesse egoistico senza freni del mercato (nelle tre dimensioni del lavoro, del denaro e della terra in particolare) “manifesta una fondata esigenza di sicurezza materiale e di riconoscimento sociale”. Dunque legittimamente sottopone il mercato al vincolo di una “società democratica” che sottrae i fattori del lavoro, del denaro e della terra al mercato, fissandone politicamente i prezzi (cioè regolando il lavoro ed i relativi contratti, limitando i movimenti di capitale e controllando gli scambi nei limiti del danno ai territori, come vedremo alla fine).

Ash si guarda bene dal citare il vecchio antropologo, ma riconosce che anche ora per troppi l’idea che l’economico possa e debba fare a meno del politico, e la liberazione delle forze che ne deriva, ha provocato un cambiamento che “è sentito in peggio”. E che molti, anzi troppi, sono dunque “scontenti”.

Questo è il clima che viene sfruttato dai populisti che, a suo parere, raccontano storie “semplicistiche” e, a fronte dei meravigliosi destini, e progressivi, dell’apertura che per decenni hanno raccontato i cantori della mondializzazione liberale, ora affermano che tirare su il “ponte levatoio” nazionale significhi “riprendere il controllo” e quindi restaurare una età dell’oro che è passata. Ovvero “buoni posti di lavoro, famiglie felici e una comunità nazionale più tradizionale”. Quale la verità per il nostro? Tutto il contrario, il peggio deve arrivare, attraverso la rivoluzione digitale “che ora sta avanzando anche attraverso l’apprendimento automatico verso l’intelligenza artificiale”, e porterà altri cambiamenti dirompenti ed altra insicurezza.

Insomma, se i populisti immaginano castelli entro i quali proteggersi e offrono agli spaventati abitanti dei borghi di entrarvi i liberali alla Ash rispondono con un esercizio di orgoglioso pensiero razionale e secolare: la realtà è che andrà sempre peggio, per voi.

Abbastanza incoerentemente subito dopo si fa strada la mente politica dello scienziato sociale e passando al “combattimento liberale” immagina possano esserci “risposte razionali e pratiche” ai problemi che ha appena definito un sentimento che andrà sempre peggio per effetto delle forze irresistibili della tecnologia (se c’è un dio nel pantheon liberale è questo). Ovvero ai problemi della disuguaglianza e della sicurezza.

Senza voler chiudere nel castello gli abitanti resterebbe il reddito di base universale o il lavoro di base garantito. Ma servirebbe anche un quadro intellettuale coerente (ovvero servirebbe un Keynes).

Ed infine, raggiungendo la vetta stessa della incoerenza con le premesse, il politologo riconosce che il globalismo e il cosmopolitismo sono incapaci di creare passione ed appartenenza alla scala necessaria per muovere i fatti politici. E quindi, come fa anche Calenda, aggiusta il tiro appiccicando un richiamo alla “identità nazionale”. Se “non si può abbandonare la nazione ai nazionalisti”, ci vuole un patriottismo civico.

Di qui al richiamo a “République en Marche!” di Macron (che ha vinto le elezioni con una piccola minoranza dei voti, grazie al meccanismo francese ed ora nei sondaggi è più in basso del suo predecessore) e la speranza di una “lunga e combattuta ripresa”.

Un articolo esile, leggero come un venticello di autunno, profondamente contraddittorio e non privo di una vena malinconica, da caduta degli dei. Ma nella sua leggerezza un articolo che solo cinque anni fa sarebbe stato impossibile da scrivere.

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