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la citta futura

I mutevoli significati della democrazia

di Stefano Paterna

Casaleggio profetizza la fine del Parlamento e scandalizza? Parliamo allora dei consigli

Il buon Casaleggio junior ha recentemente dimostrato, con sommo scandalo dei benpensanti, che il termine democrazia non ha un senso univoco. Per il suddetto, la parola è sinonimo di democrazia diretta che si avvale delle nuove tecnologie e consente la partecipazione di ogni singolo cittadino al processo decisionale. Pertanto la gloriosa democrazia rappresentativa (e in particolare quella parlamentare) tra qualche lustro potrebbe essere serenamente consegnata all’archivio della storia. Questo in sintesi.

Trascurerei ora di occuparci oltre delle ragioni del guru a 5 Stelle o dei suoi oppositori “parlamentaristi”, tra i quali è bene ricordarlo si annidano anche i fautori della riforma costituzionale di renziana memoria che dava vita a un Senato di non eletti. Lo farei perché credo sia di maggiore interesse comprendere il nesso stretto che esiste tra un profilo specifico di democrazia e, pertanto, di Stato e gli attori che lo promuovono: ovvero le diverse classi sociali.

 

Democrazia parlamentare e piccola borghesia

La democrazia parlamentare, nata tra ‘600 e ‘700 dai fuochi delle Rivoluzioni inglese, americana e, soprattutto, francese, è stata lo strumento politico di punta (il forcipe direbbe Marx) con il quale la borghesia ha distrutto la vecchia società feudale e ha tratto alla vita la nuova società, ovvero quella in cui i lavoratori marciscono attualmente.

Fu un’opera di distruzione e di creazione formidabile e la forma parlamentare fu strettamente necessaria perché ogni singolo individuo doveva essere politicamente libero da vincoli e doveva poter rappresentare l’intera società. O meglio: la borghesia doveva poter rappresentare l’intera società e non solo sé stessa, come prevedeva la suddivisione in ordini (aristocrazia, clero e terzo stato) vigente in Francia, ad esempio, prima della Grande Rivoluzione. Si veda l’originaria convocazione degli Stati Generali da parte di Luigi XVI.

A Versailles nel 1789 la prima battaglia fondamentale fu, infatti, quella per l’abolizione degli ordini e, quindi, per la creazione dell’arena parlamentare. Una struttura politica che fu utilizzata dalla borghesia e soprattutto dalla piccola borghesia che ne era la frazione radicale di combattimento, basti pensare alla estrazione sociale di figure quali Robespierre e Danton.

Dopodiché la democrazia parlamentare non ha cessato di servire la causa di chi l’aveva generata. Certo, nel corso del tempo le poderose lotte di classe che si sono succedute hanno allargato il diritto di voto, hanno ampliato i diritti anche sociali riconosciuti alle classi popolari (istruzione, sanità), ma si è trattato di innesti e di compromessi (assolutamente preziosi) come quello rappresentato dalla Costituzione Italiana nata dalla Resistenza. E pertanto soggetti ai mutevoli rapporti di forza: il diritto al lavoro e a una retribuzione che garantisca una vita dignitosa sono piuttosto emblematici dell’attuazione della nostra Costituzione Repubblicana.

 

Democrazia diretta e dominio del grande capitale

Ora il Casaleggio junior, in forza dei risultati elettorali del suo M5S, entra nel sacro tempio della democrazia parlamentare e osa rammentare ai padri coscritti che potrebbe darsi che in un tempo breve, ma (ahinoi) ancora imprecisato, si potrà fare a meno dei loro servigi… Quale scandalo! Quali alte grida di sdegno dei sinceri democratici eletti, che so, nelle liste del Pd o in quelle di Forza Italia!

Tuttavia, si corre il rischio che le profezie del giovane Casaleggio siano più che semplici follie o sogni di mezz’estate. C’è un nesso che si dovrebbe cogliere tra l’inaridimento della vita politica nelle cosiddette democrazie occidentali e le proposte di Casaleggio.

Se nel corso di questi ultimi decenni ci si è ridotti ad eleggere come capi di stato o di governo figure quali Ronald Reagan, Silvio Berlusconi o Donald Trump e se tra queste figure di successo e i loro oppositori non c’erano grandi differenze di programma (riduzioni delle tasse sui ricchi, privatizzazioni delle industrie e dei servizi pubblici, utilizzo della forza militare come “strumento di risoluzione delle controversie internazionali”); se il crescente astensionismo elettorale è la sanzione popolare di una percepita inutilità delle macchine parlamentari, perché non affidarsi a una sanzione via web di queste stesse ricette, senza troppe spese e con in più l’immagine seducente di un mondo dove saremmo tutti cittadini alla pari, pronti a votare referendum su tutto, come in una enorme Confederazione Elvetica?

A nulla valgono i ragionamenti (peraltro sensati) degli apologeti della presente democrazia che i cittadini isolati uno dall’altro dinanzi a un pc sarebbero facilmente manipolabili dalle diverse frazioni o lobbies capitaliste. È vero, ma la nuova forma politica è obiettivamente più funzionale della vecchia per il grande capitale internazionale. E, quindi, l’utopia grillina della cosiddetta democrazia diretta ha una qualche probabilità di concretizzarsi. L’estrema personalizzazione delle contese elettorali in cui ogni candidato viene venduto come prodotto estetico, senza alcun contenuto specifico, ne ha costituito la necessaria premessa ideologica, così come la rivendicazione grillina (e ancor prima di gran parte dell’intellettualità liberale dall’89 a oggi) della fine delle ideologie.

 

La nostra democrazia, quella consiliare

C’è tra i profili di democrazia qualcosa di diverso, oltre quel che resta della forma parlamentare e quella futuribile (ma non troppo) di Casaleggio? Certo, c’e quella democrazia consiliare praticata dalla Comune di Parigi, dai Soviet nel ’17 e, persino, nella stagione dei nostri consigli di fabbrica a cavallo tra anni ’60 e ’70. Quella che parte dai luoghi della produzione, che si fonda sì sulla partecipazione diretta e continua alla vita politica da parte della base dei lavoratori, ma anche sulla delega con possibilità di revoca del mandato e quindi di controllo degli eletti da parte degli elettori. Dopo Lenin e Gramsci, in qualche modo ne tornò a parlare persino Pietro Ingrao quando scriveva in “Masse e potere” [1] dell’arricchimento e dell’integrazione della democrazia parlamentare italiana. Era però difficile pensare a un puntuale piano di innesto dal basso di nuove forme di democrazia nel momento in cui il PCI si trovava nella stagione del “compromesso storico” con la DC, ovvero quella dell’incontro al vertice delle due grandi burocrazie.

Ma anche la democrazia consiliare è una forma politica che assume un senso preciso solo in relazione a un contenuto storico altrettanto preciso: ovvero essa corrisponde a momenti alti della attività politica cosciente delle classi popolari e della classe operaia in particolare. Nei momenti di rottura rivoluzionaria essa appare agli osservatori quasi come “naturale”, come un’invenzione stessa delle masse. Tuttavia, nell’attualità, i comunisti ne dovrebbero sperimentare l’efficacia a partire dalle proprie organizzazioni politiche e sindacali. Con estrema cautela, invece, si potrebbe saggiarne l’utilità in una campagna politica per l’arricchimento della democrazia, in alternativa proprio alla prospettiva grillina, sottolineando soprattutto il meccanismo della revoca del mandato. Questo strumento, in combinazione con una battaglia per il ritorno a una legge elettorale proporzionale, potrebbe conferire una visibilità politica autonoma in materia a Potere al Popolo, alla sinistra radicale e ai comunisti.


Note:
[1] Pietro Ingrao, Masse e potere, Roma, Editori Riuniti, 1977.

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