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Il gioco di sponda del governo italiano

di Sergio Cararo

Quali sono i “perimetri” della politica estera dell’attuale governo italiano? Qualche domanda è tempo di porsela, anzi, in molte cancellerie europee se la stanno ponendo in diversi.

In questi giorni il ministro dell’Economia Tria è in Cina. Giovedi incontrerà gli investitori cinesi e gli operatori di Borsa a Shangai. A luglio il premier Conte era stato negli Usa per incontrare Trump. Nei mesi precedenti aveva fatto il giro delle sette chiese a Berlino e Parigi.

Ma in questi giorni le relazioni tra l’Italia dei “tre governi in uno” e i partner dell’Unione Europea, sono diventate al calor bianco, con linguaggi e opzioni del tutto inusuali e che solo qualche rodomontata di Renzi aveva osato praticare. Il vertice “politico” a due tra Salvini e Orban, ha poi aggiunto un dettaglio che va incasellato in un mosaico che potrebbe disegnare uno scenario assai diverso da quelli fin qui consueti e inamovibili degli ultimi due decenni.

Se nella Prima Repubblica era quasi un obbligo che un presidente del consiglio appena eletto dovesse presentarsi prima a Washington che in parlamento, nella Seconda Repubblica la liturgia prevedeva una doppia presentazione, una a Washington e una a Bruxelles.

Negli ultimi anni poi la leadership europeista – incarnata soprattutto dal Pd – aveva sancito la scelta strategica di campo, allineandosi alle ambizioni del nucleo franco-tedesco di fare dell’Unione Europea “il cardine del nuovo ordine internazionale” (come affermato recentemente dal ministro degli esteri tedesco) sganciandosi da una sempre più logorata subalternità politica e tecnologica dagli Usa.

L’attuale governo sta segnando una discontinuità con la subordinazione europeista dei governi Pd. Berlusconi invece ha sempre avuto un rapporto ambivalente e conflittuale con i vertici europei, fino a pagarne le conseguenze con il golpe di matrice Bce che lo spodestò nel 2011 per imporre Monti come Premier.

Ma il governo italiano sta agendo in un contesto assai più turbolento nelle relazioni tra Stati Uniti ed Unione Europea (in particolare tra Usa e Germania) e in una fase di alleanze a geometria variabile che fa saltare molto certezze che sembravano acquisite in eterno.

L’Italia è da sempre un paese cerniera. Una piattaforma naturale nel Mediterraneo che gli Usa hanno inzeppato per anni di basi militari. Ce ne sono più in Italia che in tutto il resto d’Europa. Ed è una eredità di cui è difficile sbarazzarsi (sempre che qualche governo se ne voglia sbarazzare, ndr). Ma l’Italia è uno dei maggiori stati costituenti dell’Unione Europea e la terza economia dell’Eurozona.

Fino a quando le relazioni euroatlantiche nella Nato sono state inamovibili e condivise, nessun problema. Ma adesso che le due sponde dell’Atlantico sembrano allontanarsi – e i dazi di Trump o l’affossamento del Ttip ne sono la sanzione – le complicazioni (o le opportunità) per un paese cerniera aumentano.

Trump ha bisogno di un’Italia forte per indebolire la Germania e, in campo strategico, l’asse franco-tedesco… un ruolo ricoperto finora da Londra che ha sempre ostacolato dall’interno i progetti di difesa europea” scrive l’esperto strategico Andrea Gaiani (1).

In questa direzione la visita di Conte negli Usa e l’incontro con Trump qualcosa deve aver smosso. I toni alti di tutti i vertici del triumvirato di governo italiano contro l’Unione Europea, ma soprattutto verso Francia e Germania (sulla questione dei migranti ma anche sui divergenti interessi in Libia), alludono neanche troppo velatamente ad un gioco di sponda dell’Italia-cerniera con gli interessi dell’amministrazione Usa.

Un analista veterano come Roberto Aliboni dell’Istituto Affari Internazionali, sottolinea come “Il desiderio di rafforzarsi contro i rivali europei e le loro supposte soperchierie genera, come già accaduto ripetutamente nel passato, un riavvicinamento dell’Italia agli Stati Uniti”. Al termine dell’incontro con Trump, Conte ha confermato come “L’Italia costituisce per gli Usa “a reference point in Europe and a priviliged interlocutor” (2).

Una tesi questa confermata da un diplomatico di lunga lena come Giancarlo Aragona, secondo cui “Trump potrebbe quindi incoraggiare il nostro paese a indurire l’inedito ruolo di disturbo negli affari dell’Unione Europea che, così com’è, egli considera un nemico degli USA in campo commerciale e puntello della crescente potenza tedesca” (3).

Due ultimi particolari meritano di essere sottolineati in questa prima e parziale riflessione sulla politica internazionale del governo.

In primo luogo l’asse privilegiato tra Salvini e Orban, manda un segnale reciproco ai paesi dell’Europa dell’Est del Gruppo di Visegrad, una sorta di concentrato reazionario a cavallo tra l’Unione Europea e la Russia. Sono i paesi entrati prima nella Nato e che poi gli Usa hanno voluto anche dentro l’Unione Europea. Una annessione benvista allora anche dalla Germania per motivi di espansione economica sui mercati dell’Est, ma che sono un puntello decisivo nel gioco di sponda tra l’interlocuzione privilegiata con l’Unione Europea e quella con gli Usa.

Infine c’è il convitato di pietra della Russia e del suo rapporto con l’Unione Europea. Si tratta di un terzo interlocutore in un gioco di sponda ancora più ampio (nel quale si va inserendo anche la Cina con il suo progetto della Via della Seta) ma che stenta a definirsi concretamente. C’è sicuramente lo scontro con gli Usa sulle rotte dell’energia che dura ormai dai primissimi anni Novanta (e di cui il Tap in Italia è un tassello), c’è il tumore maligno dell’Ucraina piazzato proprio in mezzo e sul quale occorre dire – come accadde per la Jugoslavia – che ha fatto più danni l’avventurismo europeo e tedesco che l’ingerenza Usa. Il nuovo governo ha lasciato intendere di voler ricostruire buone relazioni con la Russia, anche se sul piano pratico si è visto ancora poco o niente.

Dentro questa ormai evidente multipolarità di “interlocuzioni privilegiate”, il nuovo governo italiano vorrebbe barcamenarsi per ottenere il massimo di risultato: qui sulla gestione dei migranti, lì sulle commesse militari, un po’ più in là sull’approvvigionamento energetico e ancora oltre su una libertà di manovra sul piano economico che però la gabbia europea non consente più da venticinque anni.

E’ un gioco di sponda pericoloso che richiederebbe una classe dirigente meno avventurista. Ma questa ormai è l’epoca in cui l’avventurismo e il sovversivismo delle nuove classi dirigenti si va palesando in tutta evidenza. Mettere in campo una rottura e una visione alternativa, soprattutto sull’Unione Europea, diventa urgente. Niente sarà come prima.


Note
(1) Gaiani su Analisi Difesa.it
(2) Aliboni su Affari Internazionali, newsletter dell’Istituto Affari Internazionali
(3) Aragona su Ispi (Istituto Studi Politica Internazionale)

Comments

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Eros Barone
Saturday, 01 September 2018 10:25
"Niente sarà come prima": l'epifonema oracolare fa venire in mente quel vezzo mediatico per cui ogni stormir di fronde, da un undici settembre a un "Obama for president", fino al cosiddetto "riavvicinamento dell'Italia agli Stati Uniti" (ma si era mai allontanata?), viene raccontato come una svolta epocale. Certo, si pone oggi, e si porrà sempre di più, all'interno del sistema capitalistico, il problema di chi deve comandare i processi in corso. E se un nuovo compromesso vi sarà, questa volta sarà stabilito tra frazioni del capitale e non tra il capitalismo e il suo avversario di classe: ma questo dà la misura di un mutamento di fase nel rapporto tra le forze in campo, non certo di una svolta epocale (che semmai va individuata, ma non è una novità, nel dissolvimento del campo socialista avvenuto all'inizio degli anni Novanta del secolo scorso).
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