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Bouveresse, il progresso come falso movimento

di Matteo Moca

Quando Giacomo Leopardi nella Ginestra parla di «magnifiche sorti e progressive», come è noto commenta sarcasticamente lo splendido e brillante futuro che attende l'uomo. Già da quel momento, e anche prima in realtà, il termine «progresso» ha iniziato ad avere un significato preciso, connotato non solo dal continuo avanzamento delle conoscenze e delle potenzialità, ma, in maniera assoluta, da un'acquisizione per l'umanità di forme di vita sempre migliori, con un incremento continuo e inarrestabile, per esempio, del benessere economico e della libertà degli individui. Questa «fiumana del progresso» sembra non smettere mai di ingrossarsi e inglobare parti di popolazione, ma in verità, a osservare la nostra realtà con occhio critico e partecipe, non è difficile scorgere come questo sia solo un falso mito, destinato però a durare nel tempo: una forma di resistenza importante se si pensa che il pensiero postmoderno, che ha da tempo intriso di sé la nostra contemporaneità, ha già smontato una a una le grandi narrazioni della modernità.

Su questa vuota resistenza si inserisce Il mito moderno del progresso. Filosoficamente considerato, nuovo libro di Jacques Bouveresse da poco tradotto in Italia da Alberto Folin per Neri Pozza.

Il libro del filosofo del linguaggio francese, noto almeno per l'importante Filosofia, mitologia e pseudoscienza. Wittgenstein lettore di Freud (Einaudi), è un'acuta analisi della storia del termine e del suo utilizzo non solo nella filosofia o nella letteratura, ma anche nei discorsi e nelle orazioni di uomini politici o tecnocrati di oggi, economisti o imprenditori, convinti che esso non rappresenti una speranza ma un obbligo a cui attenersi: «il dovere di servire il progresso è, insomma, la vera e propria parola d'ordine del nostro tempo, la fede da fare propria per non incorrere nell'esclusione da ogni agire pubblico». I fari che guidano la lettura di Bouveresse sono soprattutto Karl Kraus, Robert Musil e Ludwig Wittgenstein: attraverso un confronto serrato con le loro opere, Bouveresse può discutere e interrogare non la nozione di progresso in sé, quanto, come recita il titolo del libro, il suo mito. Risultano illuminanti le parole che Karl Kraus scrisse per un articolo del 1909, dove il progresso finisce per assumere semplicemente il valore di una nuda forma a favore di una trasformazione in slogan o cliché: «il progresso – scrive Bouveresse sulla scia di Kraus – non è un movimento, ma uno stato, e uno stato consistente nel sentirsi spinti in avanti, qualunque cosa si faccia, senza per questo necessariamente avanzare». Ciò che porta all'esasperazione Karl Kraus non è tanto l'idea di progresso in sé, che nulla ha di negativo o fastidioso, quanto «le forme di idolatria che essa suscita, e quella specie d’isteria sollevata all’epoca nei giornali dalle performance della tecnica o dalla realizzazione di prodezze come la conquista del Polo Nord», così come per il Wittgenstein delle Note sul Ramo d'oro ciò che provoca insofferenza è il sentimento di superiorità che l'uomo moderno prova nei confronti dei suoi predecessori, e di come non sia «per niente impressionato dalle prestazioni e dallo spettacolo ai quali tende attualmente a ridurre sempre di più la realtà di ciò che viene chiamato “progresso”».

Questa dotta, acuta e profonda analisi di Bouveresse trova un suo importante precipitato, seppur con le naturali differenze che nascono dalla natura dei due libri, in La conoscenza e i suoi nemici. L'era dell'incompetenza e i rischi per la democrazia, aureo e prezioso saggio di Tom Nichols pubblicato da Luiss University Press con la traduzione di Chiara Veltri. In questo libro sembra infatti di scorgere le conseguenze del ragionamento di Bouveresse, con l'effettivo progresso tecnologico, quello che ci permette, per esempio, di accedere ad una quantità di informazioni senza precedenti, che però non porta alla nascita di un nuovo Illuminismo su di esso basato, quanto alla nascita di una nuova «era dell'incompetenza» e ad una sorta di «egualitarismo narcisistico» che pare avere la meglio sul sapere consolidato. Si tratta allora di una replica del meccanismo che mette in luce Bouveresse: davanti ad un progresso reale, ed è impossibile non definire tale quello tecnologico odierno, l'uomo non solo si accontenta della sua «idea», del «sentirsi spinto in avanti», ma è attraverso questa idea e non attraverso un suo reale sfruttamento, che osserva e discute il mondo. In questo libro, la tesi di Nichols, supportata da una grande mole di studi e di letteratura, è tanto semplice quanto potente: nonostante nel discorso pubblico la distanza tra gli esperti di qualsiasi materia e i profani cresca sempre di più, cresce con altrettanta preoccupante velocità anche la sfiducia che i comuni cittadini sentono verso gli intellettuali, una sfiducia che nasce proprio da quelle potenziali fonti di conoscenza che però, alla fine, non si rivelano tali: «Nell'era dell'informazione, non esiste una discussione irrisolvibile. Ciascuno di noi se ne va in giro portando con sé un accumulo di informazioni, su uno smartphone o su un tablet. […] Internet ha accelerato il crollo della comunicazione tra esperti e profani offrendo un'apparente scorciatoia per l'erudizione».

«Contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo» ha scritto Giorgio Agamben, ma ciò che mettono in luce questi due libri è come questo sguardo debba essere profondo e soprattutto guidato da un «pensiero lungo» capace di investigarne genesi, natura e caratteristiche. Contro il falso mito del progresso, continuamente e vuotamente sbandierato nelle scienze, nella cultura e nella politica, e contro l'era della disinformazione e dell'uno vale uno, i libri di Bouveresse e Nichols sono degli ottimi antidoti per acquisire gli anticorpi necessari a resistere e tentare di cambiare rotta.


Jacques Bouveresse, Il mito moderno del progresso. Filosoficamente considerato, traduzione di Alberto Folin, Neri Pozza, pp. 110 euro 12,50

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