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Perché sono lugubri i silenzi europei sulle proposte di Paolo Savona

di Guido Salerno Aletta

L'analisi dell’editorialista Guido Salerno Aletta su reazioni e silenzi al documento che il ministro Savona ha inviato a Bruxelles

È sempre così: non se ne parla nemmeno. Gelo e silenzio, silenzio e gelo: quando vengono presentate proposte strutturate per l’abbattimento del debito pubblico italiano con procedure straordinarie, si erige un muro. Sembra che accada anche stavolta, nonostante si tratti di una iniziativa ufficiale del Ministro per gli Affari Europei Paolo Savona, che l’ha formalizzata nell’ambito di un documento assai più complesso, intitolato “Una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa”. Diplomaticamente parlando, è il consueto fin de non-recevoir: non si entra neppure nel merito della questione.

Ripercorriamo gli eventi. Mercoledì è stata annunciata la trasmissione a Bruxelles del documento in questione, sottolineando che il Governo italiano assumerà tutte le iniziative utili per dare vita a un Gruppo di lavoro ad alto livello, composto dai rappresentanti degli Stati membri, del Parlamento e della Commissione, che esamini la rispondenza dell’architettura istituzionale europea vigente e della politica economica con gli obiettivi di crescita nella stabilità e di piena occupazione esplicitamente previsti nei Trattati. Il Gruppo di lavoro ha lo scopo di sottoporre al Consiglio europeo, prima delle prossime elezioni, suggerimenti utili a perseguire il bene comune, la politeia che manca al futuro dell’Unione e alla coesione tra gli Stati membri.

Il giorno dopo, giovedì, come se nulla fosse, i l Commissario europeo agli Affari economici Pierre Moscovici, ha affermato che «C’è un problema nella zona euro, che è l’Italia».

Eppure, sempre mercoledì, a Bruxelles, il Presidente della Commissione europea Jean-Claude Junker aveva ammonito tutti del pericolo di uno sbriciolamento dell’edifico europeo. Tutti in coro, pronti a stracciarsi le vesti contro il demone del risorgente nazionalismo; ma non appena si tratta di esaminare le cause di tanto disastro e di proporre i rimedi adeguati, come ha fatto Paolo Savona, c’è solo mutismo. Ben lo aveva previsto, però: non per caso ha premesso al documento una citazione tratta da Il Principe di Machiavelli: “Non esiste cosa più difficile a trattare, né più dubbia a riuscire, né più pericolosa a maneggiare, che farsi capo e introdurre nuovi ordini, perché lo introduttore ha per nimici, tutti quelli che degli ordini vecchi fanno bene, e ha tepidi defensori tutti quelli che degli ordini nuovi farebbono bene”.

Le regole attuali vanno bene solo ad alcuni Paesi europei, i più forti, prima fra tutti la Germania che non ha evidentemente alcun interesse a metterle in discussione.

Del documento, estremamente ampio, prendiamo in considerazione solo due questioni, quelle relative alle regole per la fissazione del disavanzo ed alla riduzione del rapporto debito/Pil.

Dietro i debiti pubblici non c’è solo la speculazione finanziaria che guadagna, e non poco, giocando spesso al ribasso: ci sono i soldi veri, quelli che girano: giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno.

Abbattere il debito pubblico con misure straordinarie, e soprattutto contenerne drasticamente i tassi di interesse, è una condizione indispensabile per consentire all’Italia di riprendere a crescere, insieme agli altri Paesi che hanno un elevato rapporto debito/Pil: ma era una questione che andava risolta già nel 1992, ai tempi del Trattato di Maastricht.

Su questo punto, l’analisi di Savona è tagliente: se si pone a carico dell’applicazione del divieto di disavanzo eccessivo il principio di produrre avanzi di bilancio al fine di ridurre il rapporto debito pubblico/pil con effetti deflazionistici, la divaricazione degli itinerari di sviluppo dei paesi che si trovano al di sotto della soglia del 60% del rapporto debito pubblico/PIL e di quelli che si trovano al di sopra comporta conseguenze pericolose per la stabilità dell’euro e la coesione socio-politica.

Giova ricordare ancora una volta i numeri italiani, confrontando il pil reale del 2008 con quello di quest’anno: era di 1.664 miliardi di euro all’inizio della crisi, ed alla fine di quest’anno sarà ancora più basso rispetto ad allora di una cinquantina di miliardi. Se tutto va bene, rispettando le previsioni di crescita, arriverà a 1.619 miliardi. Se si riflette poi sull’ammontare del prodotto perso nel frattempo, cumulando la perdita di ciascun anno rispetto al 2008, si arriva alla terrificante cifra di 904 miliardi di euro. Al costo spaventevole della crisi, va aggiunto anche il peggioramento del rapporto debito/Pil accresciutosi per via della deflazione monetaria, passato dal 102,4% al 129,7%.

Le regole europee in materia di politica di bilancio sono sbagliate, perché la loro applicazione allontana anche dall’obiettivo della stabilizzazione finanziaria. Siamo più poveri e più indebitati. Ecco perché l’Europa è a pezzi.

Occorre dunque rimediare, secondo Savona, al primo vizio di origine nella costruzione dell’eurosistema: quello di non aver sistemato subito gli eccessi di debito pubblico rispetto al Pil, invece di introdurre il criterio di convergenza verso il parametro del 60%. I danni di questa impostazione sono stati enormi: chi era in eccesso rispetto al limite h dovuto ricorrere a politiche restrittive, pena l’esposizione alla speculazione e l’emergere degli spread tra i propri titoli sovrani e quelli di riferimento. Di conseguenza, il costo del danaro si è differenziato anche in misura rilevante, divaricando ulteriormente le performance economiche e sociali dell’eurozona e alterando le condizioni di corretta competizione tra imprese.

In secondo luogo, e qui si viene alla questione del deficit pubblico, non basta agire dal lato dell’offerta: va sollecitata anche la domanda, in particolare attraverso la spesa pubblica per investimenti. A questo fine, deve valere la regola aurea di un sistema di crescita stabile: la percentuale di disavanzo del bilancio non deve essere superiore al saggio di crescita nominale del Pil che ne risulta. Non c’è bisogno, però, di modificare subito le regole vigenti, visto che sono state adottate deroghe in altre occasioni di crisi conclamata.

La proposta di abbattere strutturalmente il debito pubblico è tanto semplice quanto dirompente: se i timori dei paesi membri creditori che ostacolano la definizione di una politica fiscale fossero dovuti al rischio temuto da alcuni paesi di doversi accollare il debito altrui, esistono le soluzioni tecniche per garantire che ciò non avvenga. Si tratta di attivarle in pratica effettuando scelte politiche, come quelle di concordare un piano di rimborsi a lunghissima scadenza e ai tassi ufficiali praticati, fornendo una garanzia della Bce fino al rientro nel parametro del 60% rispetto al Pil, in contropartita di una ipoteca sul gettito fiscale futuro o di proprietà pubbliche in caso di mancato rimborso di una o più rate. Secondo Savona, occorre decidere oggi quello che si sarebbe dovuto fare prima dell’avvio dell’euro. Ovviamente, conclude, tra le clausole di un siffatto accordo vi sarebbe anche quella che il disavanzo di bilancio pubblico si collochi in modo dinamico entro la regola indicata di coerenza rispetto al saggio di crescita nominale del PIL e quindi non comporti un nuovo superamento del rapporto debito pubblico/Pil.

Sull’intero documento predisposto da Savona, che riguarda numerosi altri aspetti dell’architettura europea, dai poteri della Bce in materia di cambio dell’euro alla istituzione di una Scuola europea, c’è davvero tanto su cui riflettere.

Ci sono state solo due prese di posizione, in questi giorni, che vale la pena considerare.

A chi nel governo sollecitava un aumento del deficit, Il Ministro dell’economia Giovanni Tria ha obiettato che, verosimilmente, il mercato reagirebbe richiedendo un aumento generalizzato dei tassi. Ciò comporterebbe una maggiore spesa per interessi, per un importo più volte superiore all’entità del maggior deficit. Si avrebbero effetti negativi sul rapporto debito pil in quanto ad un moltiplicatore del reddito determinato dalla maggiore spesa, che è solo di qualche decimale superiore all’unità, corrisponde un aumento più che proporzionale della spesa per interessi. Si spenderebbe 1 euro in più, in deficit, per ottenere un reddito di 1,5 euro; ma con un costo sugli interessi che sale di 3-4 euro. Un inferno.

Il Governatore della Bce Mario Draghi, rispondendo ad una domanda nella conferenza stampa a conclusione dell’ultimo Consiglio, ha affermato che il mandato della Bce si limita alla stabilità della moneta e non implica la garanzia del finanziamento degli Stati in qualsiasi condizione. Concludendo sull’Italia, ha affermato che il nostro Presidente del Consiglio, il Ministro dell’economia e quello degli esteri hanno tutti confermato che saranno rispettate le regole sui bilanci pubblici. Silenzio e gelo, gelo e silenzio.

C’è poco da fare: il problema non sono tanto i vincoli parametrici al deficit ed al debito pubblico, quanto l’impotenza degli Stati rispetto al mercato. Per rimediare, bisognerebbe tornare assai più indietro, al regime che vigeva prima del divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, quando i tassi di interesse sui titoli erano fissati dal primo e la seconda procedeva immediatamente all’assorbimento dell’inoptato dal mercato. Ma, questa, è davvero tutta un’altra storia.

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