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dolcevita

La fine dell’informazione mainstream

di Marco Cedolin

Secondo gli ultimi dati diffusi da Ads (accertamento diffusione stampa), nei quattro anni che intercorrono fra il novembre 2013 ed il novembre 2017 i quotidiani italiani hanno visto diminuire il numero di copie vendute di oltre il 30%, con dei cali in molti casi notevolmente superiori. Il quotidiano La Repubblica, ad esempio, ha perso il 44,5%, Il Sole 24 Ore il 45%, Il Corriere della Sera il 35,3%, Libero il 65,8%, Il Fatto Quotidiano il 33,2%, Il Giornale il 45%, Il Tempo il 55% e non è andata meglio neppure per i giornali sportivi con Tuttosport crollato del 52% e Il Corriere dello Sport del 35%.

Se un trend di questo genere dovesse proseguire anche nei prossimi anni, e non esistono motivi per supporre che non avverrà, diventa facile prevedere come fra un decennio i quotidiani nella forma che conosciamo non esisteranno più.

Secondo la relazione annuale 2018 dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM), fra il 2014 e il 2017 i telegiornali delle varie reti hanno perso oltre 8 milioni di spettatori, pari a circa un quinto dell’audience totale e anche in questo caso non esiste alcun motivo che induca a pensare a un’inversione di tendenza nel corso dei prossimi anni.

Quotidiani 2013 2017ridFra un decennio i TG sicuramente non saranno scomparsi, ma rivestiranno senza dubbio un ruolo molto più modesto nel condizionamento dell’opinione pubblica e nella formazione dell’immaginario collettivo.

Alla base di questo vero e proprio crollo dell’informazione mainstream all’interno dei propri canali tradizionali (giornali e TV) c’è sicuramente l’abitudine sempre più radicata in larghi strati della popolazione di attingere alle proprie informazioni attraverso i siti e i blog presenti in Rete o magari attraverso gli stessi quotidiani e TG nel loro formato digitale.

Ma il vero problema che affligge il mainstream non può certamente venire ricondotto esclusivamente alla forma attraverso cui viene veicolata l’informazione, perché questo sarebbe oltremodo riduttivo.

Il vero problema che accomuna l’intera informazione “ufficiale” è assai più profondo e prescinde dal mezzo attraverso il quale le notizie raggiungono il lettore o lo spettatore. Si tratta di un problema di credibilità e autorevolezza che il mainstream ha progressivamente perso nel corso degli anni a causa del suo altrettanto progressivo allontanamento dal Paese reale e dai problemi reali degli italiani, portandolo a raccontare una realtà artefatta che i lettori e gli spettatori non sentono più propria.

Se fino a qualche anno fa, il verbo esperito sui giornali o nei TG rappresentava la realtà per antonomasia, senza che nessuno osasse metterla in discussione, oggi non è più assolutamente così, grazie al maggiore senso critico sviluppato dalla popolazione, larga parte della quale riesce a informarsi a 360 gradi con l’ausilio della Rete e comprende come giornali e TV molto spesso (troppo spesso) dispensino vere e proprie fake news ad uso e consumo dei gruppi di potere che ne orientano i contenuti.

Sempre più in balia del conglomerato di potere che li gestisce, quotidiani e TG hanno smesso di produrre informazione, per dedicarsi quasi esclusivamente alla disinformazione, fatta di fake news e strategie mirate  all’orientamento del pensiero, un prodotto oltremodo scadente che sempre più lettori e spettatori dimostrano di non gradire affatto.

Nel decennio a venire, il potenziamento delle versioni online dei quotidiani e dei TG non risolverà  assolutamente il problema, che travalica di gran lunga il mezzo con cui vengono veicolate le notizie e riguarda invece la qualità delle stesse.

Paradossalmente, solo la verità potrebbe salvare l’informazione mainstream dal progressivo decadimento, ma la verità è anche l’unico elemento che i gruppi di potere che gestiscono i media sanno bene di non potersi permettere.

Comments

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Eros Barone
Thursday, 20 September 2018 12:08
Il processo di spettacolarizzazione, ‘patetizzazione’ e ‘finzionalizzazione’ delle notizie, posto in opera dai 'mass media' (senza l'eccezione che per l'autore dell'articolo sarebbe rappresentata dalla Rete), fu descritto e analizzato alcuni anni fa da Michele Loporcaro, docente di linguistica romanza all’università di Zurigo e autore del libro intitolato “Cattive notizie” (si badi bene: “cattive notizie”, non “notizie cattive”), recante come sottotitolo una specificazione quanto mai significativa: “La retorica senza lumi dei mass media italiani”. In quel benemerito saggio l’autore conduceva una penetrante disàmina dei quotidiani italiani, mettendo in luce il rapporto perverso fra i quotidiani, la tivù e la Rete, laddove un simile rapporto, se da un lato corrisponde ad una tendenza mondiale, vede dall’altro il nostro paese, per via della mancanza di contrappesi storici e culturali, all’avanguardia in questa deriva visualizzante, i cui ingredienti sono, per quanto concerne la stampa sia cartacea che digitale, sempre più colore, sempre meno parole, sempre più commenti relativi alle cose che succedono in tivù. L’autore applicava, inoltre, all’analisi del linguaggio televisivo e giornalistico una batteria di strumenti che sono tipici della linguistica, della narratologia, della critica letteraria e della semiotica: strumenti che, prima di essere applicati all’analisi in questione, erano illustrati e spiegati in un denso capitoletto del libro (e questa era una caratteristica assai interessante del libro in parola). Tuttavia, le ragioni del libro, prima ancora che linguistiche, erano civili, poiché l’autore, che lanciava molti e assai acuminati strali sui ‘mass media’ del nostro paese (laddove oggi questi ultimi meriterebbero di essere cannoneggiati), dimostrava una lucida consapevolezza, da una parte, del fatto che i vizi linguistici dei tiggì rinvìano a vizi culturali profondi del giornalismo e della storia italiani e, dall’altra, che ad essere chiamati in causa non erano solo tivù, giornali e Rete, ma anche la cultura e la scuola, di cui quelli sono, ad un tempo, premessa e derivazione.
Ma, in realtà, ad essere colpevoli di questa deriva visualizzante e del conseguente irrazionalismo di massa (in cui, tra l’altro, esattamente come negli anni Trenta del secolo scorso, rientra anche il fenomeno dell’estetizzazione e della personalizzazione della politica) non sono soltanto i mai troppo disprezzati ‘mass media’, ma un’intera civiltà. Muore un cantante o un 'manager' di successo e le folle impazziscono (o si vorrebbe che impazzissero), l’intera società si prosterna riverente (o almeno così si vorrebbe): quella ‘proskýnesis’ è però il sintomo della crisi dell’Occidente, che scambia un cantante o un funzionario del capitale per un filosofo, ricco come è di cantanti e povero di filosofi, ricco come è di emotività e povero di ragione, ricco come è di simboli e povero di logica.
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