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Intevento all’essemblea Patria e Costituzione

di Carlo Formenti

C’è un filo rosso – volendo regalare continuità cromatica alle controparti che oggi ci definiscono “rossobruni” – che corre dal segretario laburista, nonché primo ministro inglese a metà dei Settanta, James Callaghan, e l’ex sessantottino Daniel Cohn Bendit: il primo liquidò la sinistra laburista di Tony Benn (il maestro di James Corbyn), imponendo al partito una svolta liberista che anticipava le politiche tatcheriane, il secondo è stato a un passo dal divenire ministro dell’attuale presidente francese, il neocentrista Macron. Se questa è la parabola delle sinistre (di tutte le sinistre, socialdemocratiche e radicali), non credo ci si debba preoccupare degli insulti che ci rivolgono, credo piuttosto si debba prendere atto che costoro non sono più i nostri interlocutori.

Il compito della sinistra – se ancora così la vogliamo chiamare – dovrebbe essere infatti quello di rappresentare gli interessi delle classi subalterne, viceversa dobbiamo riconoscere che la “sinistra reale” di cui sopra rappresenta solo se stessa. O meglio, nel caso del Pd e della più ampia area di Centrosinistra, rappresenta gli interessi del grande capitale globale: basti ricordare il ruolo svolto dai vari Andreatta, Ciampi, Prodi nello smantellamento del nostro apparato industriale (con particolare riferimento alle partecipazioni statali) e nell’apertura della nostra economia alla penetrazione dei capitali transnazionali.

Non a caso Samir Amin, il grande economista egiziano venuto a mancare da poco, paragona la condizione del nostro Paese – assieme ad altri del Sud e dell’Est Europa – a quella della periferie e semiperiferie degli ex Paesi coloniali, oggi in fase di ricolonizzazione. A sua volta Giacché, nell’intervento di questa mattina, ha parlato della riduzione della Grecia allo stato di colonia da parte della Ue a trazione tedesca. Un destino che potrebbe toccare anche all’Italia, che potrebbe ritrovarsi indotta a scegliere fra il vassallaggio nei confronti della Germania o, nel caso di rottura fra l’attuale governo populista e la Ue, nei confronti degli Stati Uniti.

Quanto alle cosiddette sinistre radicali, dopo avere abbandonato le lotte per la ridistribuzione del reddito e la piena occupazione per concentrarsi sulle rivendicazioni dei diritti civili di singoli e minoranze varie, le troviamo oggi impegnate nella costruzione di un fronte unico antipopulista a fianco di neo e post socialdemocratici. Ma il populismo contro cui si scagliano è il vero nemico o è piuttosto l’aggettivo, come ha scritto J. M. Naulot, ”usato dalla sinistra per designare il popolo quando questo comincia a sfuggirle”? Io sostengo da tempo che il populismo è in realtà la forma che la lotta di classe assume in questa epoca in cui le identità sociali classiche hanno perso consistenza e autoconsapevolezza. Ciò non è affatto smentito dalle colorazioni ideologiche di destra che il fenomeno assume nella maggioranza dei casi. Gramsci ci ha insegnato che esistono le rivoluzioni passive, sommovimenti politico sociali che, in assenza di un’egemonia politica di sinistra, possono regalare alle destre, per dirla con le parole dell’intervento di Onofrio Romano che mi ha preceduto, la gestione delle trasformazioni di un sistema regolativo (vedi le politiche “keynesiane” dei regimi fascisti fra le due guerre).

Sempre Gramsci scriveva, nei “Quaderni”, che esistono momenti storici in cui il popolo non si riconosce più nei partiti, nei leader e nelle linee politiche cui fino a poco prima aveva delegato la propria rappresentanza, e aggiunge che si tratta di momenti pericolosi, in cui può scatenarsi la violenza, preparando la strada a soluzioni oscure. Scriveva queste parole da un carcere fascista, dopo la disastrosa sconfitta del movimento operario, per fortuna oggi la battaglia non è ancora persa, anche se dobbiamo riconoscere che non siamo messi benissimo, c’è ancora una partita da giocare ma dobbiamo avere le idee chiare sul campo in cui va giocata e questo campo, ripeto, non è quello delle sinistre tradizionali. Thomas Piketty, oltre ad avere indagato i motivi del ritorno di livelli di disuguaglianza paragonabili a quelli del primo Novecento, in una recente ricerca sui flussi elettorali negli Stati Uniti e a altri Paesi ha anche evidenziato la stretta relazione fra aumento della disuguaglianza ed evoluzione dei comportamenti elettorali degli appartenenti a diversi livelli di reddito e status: dagli anni Cinquanta a oggi la sinistra è venuta raccogliendo sempre più i voti dei ceti medi “riflessivi” (e in parte anche dei ceti più elevati) mentre i voti delle classi subalterne si sono massicciamente spostati a destra per protesta nei confronti di forze politiche che non rappresentano più il loro bisogni e interessi. Dobbiamo quindi porci la seguente domanda: a chi intendiamo rivolgerci? Al popolo che oggi, in assenza di alternative, vota in massa per la Lega e il M5S, oppure ai militanti di una sinistra che non rappresenta più che se stessa? La risposta mi pare ovvia.

Chiudo con una breve annotazione sul tema dell’Europa, che è stato al centro di molti degli interventi di oggi. Se è vero, e io credo sia vero, che dovremmo imparare a cambiare prospettiva, rovesciando il rapporto gerarchico fra politica ed economia, allora non possiamo congelare qualsiasi ragionamento sull’eventuale rottura con la Ue in base allo slogan thatcheriano TINA (There Is No Alternative). Anche perché il presunto carattere “oggettivo” e irreversibile del processo di globalizzazione è sempre più smentito dai processi di ri nazionalizzazione della politica, dal ritorno della competizione fra blocchi imperialisti con ricorso a guerre doganali e guerre guerreggiate (finora solo per procura) e altri fenomeni che hanno fatto dire al vicepresidente boliviano Linera – in un’intervista di un paio d’anni fa – che Donald Trump non è il becchino della globalizzazione, bensì il notaio che prende atto della sua fine.

Comments

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clau
Tuesday, 25 September 2018 12:26
Che la cosiddetta sinistra neoliberista non sia da un bel mucchio d’anni l’interlocutrice delle classi subordinate, e non solo in Italia ma nel mondo intero, mi pare un assioma scontato da lunghissimo tempo, il Italia almeno dalla metà degli anni settanta del secolo sorso, in cui ferrovieri, postini, addetti alle linee aeree, ecc, hanno iniziato ad abbandonare i sindacati di regime e ad organizzarsi in comitati autonomi per tentare di difendere salari, orari e condizioni di lavoro, pesantemente attaccati dall’organo centrale di coordinamento del capitalismo nostrano, che è lo stato, in combutta coi cosiddetti partiti operai (Pci –Psi – sinistra Dc), col pieno appoggio della triplice sindacale di loro emanazione.
Premesso ciò, non mi sento di affermare con sicurezza che la battaglia non è ancora persa, come afferma lei. Non è infatti soltanto il problema delle disuguaglianze che secondo il citato Thomas Piketty sarebbero tornate ai livelli del primo novecento, e nemmeno lo spostamento dei voti elettorali, a fare la differenza.
L’abissale differenza, a mio parere, è dovuta soprattutto al venir meno dell’assoluta mancanza di coscienza di classe, per cui oggi viene accettato senza porre alcuna sorta di dubbio o problema a qualsiasi concetto di società che in qualsiasi modo viene propagandato dai media del sistema borghese globalizzato. Stando così le cose, pertanto, non vedo la pur minima prospettiva di autentico cambiamento delle cose, non c’è da rivolgerci a nessunissima aggregazione politica da lei sottintesa. Il cambio di prospettiva a cui fa egregiamente riferimento, cioè il rovesciamento di rapporto gerarchico tra (finanza), economia e politica, non si pone soltanto con un’eventuale rottura con la Ue, ma col capovolgimento dei rapporti di classe col sistema capitalistico di produzione che ci ha resi tutti più o meno schiavi e complici, e che i cosiddetti populisti non fanno altro che rappresentare l’ultimo specchietto alla moda in ordine di tempo per acchiappare le foltissime schiere di allodole che popolano l’intero pianeta. E’ insomma un modo grezzo per cambiare tutto affinché il tutto rimanga come prima, anzi, un po’ peggio di prima.
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