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brancaccio

Il Venerdì di Repubblica intervista Emiliano Brancaccio

a cura di Roberto Brunelli

Povero euro, da emblema di un futuro radioso per le sorti progressive del Vecchio continente a totem, per populisti e affini, di ogni stortura economica possibile: il passo è stato veramente breve. Tanto che pure l’Italexit si affaccia sempre più spesso nel dibattito pubblico nostrano, dai vari piani B alla Paolo Savona ai rumorosi slogan gialloverdi passando, per contrasto, agli allarmi di premi Nobel come Joseph Stiglitz. Ma non è solo la nuova destra a scuotere il totem della moneta unica: in effetti anche a sinistra il dibattito sul destino dell’euro si è aperto una breccia. Apripista, da questo punto di vista, è stato Emiliano Brancaccio, con una posizione peculiare, critica sia verso gli entusiasti dell’euro che verso i cosiddetti sovranisti. Definito dal Sole 24 Ore «di impostazione marxista ma aperto a innovazioni ispirate dai contributi di Keynes e Sraffa» e promotore del “monito degli economisti” contro l’austerity pubblicato dal Financial Times, il Professore di Politica economica dell’Università del Sannio sa benissimo di trovarsi da tempo su posizioni che non si possono definire di mainstream: «Nel 2012, quando ancora si sperava di dare all’Unione monetaria europea una svolta progressiva, fui invitato dal Partito socialista europeo a Parigi per partecipare a un tentativo di riforma dei Trattati. Io proposi lo “standard retributivo europeo”, un meccanismo teso a frenare la gara al ribasso dei salari per riequilibrare i rapporti commerciali tra i paesi membri dell’euro.

L’idea fu accolta da tutti molto positivamente, non solo gli esponenti del Pd la fecero propria ma anche francesi, spagnoli, portoghesi e greci la sostennero. Poi intervenne un signore della Spd tedesca che disse: “tutto molto bello, ma l’Unione è stata costruita su basi competitive, non sulla cooperazione”. La sala si gelò». Comunque, Brancaccio non demorde. Tanto che, come ammette lui stesso, c’è chi lo considera un “marziano”.

* * * *

Professore, si torna in questi giorni a parlare di uscita dell’Italia dall’euro. Lei già anni fa ha ipotizzato l’ipotesi “Italiexit”, ritenendo che l’unione monetaria sia ormai impossibile da riformare. Ne è ancora convinto?

“Purtroppo i dati parlano chiaro. C’è ancora un enorme cumulo di squilibri in seno all’eurozona: da un lato ci sono Paesi che per anni hanno importato più di quanto esportassero e quindi si sono fortemente indebitati verso l’estero, dall’altro ci sono Paesi che hanno fatto registrare eccessi sistematici delle esportazioni sulle importazioni e hanno quindi accumulato crediti. La libera circolazione dei capitali, su cui l’Unione europea è stata edificata, ha reso possibili questi pericolosi sbilanciamenti tra debitori e creditori. E le politiche di austerity, anziché assorbire gli squilibri, li hanno solo aggravati, aggiungendo ai debiti anche il crollo dei redditi e l’aumento della disoccupazione”.

 

Va bene, ma questo, a suo avviso, renderà inevitabile l’uscita dall’euro? Come sa, nella stessa Gran Bretagna emergono dubbi crescenti sulla Brexit…

“Come ammette anche il presidente della Bce, Mario Draghi, lasciata in queste condizioni l’Unione monetaria tornerà a dare segni di forte instabilità non appena l’Europa entrerà in una fase di recessione. Per questo credo sia più che mai attuale la previsione del “monito degli economisti” che pubblicammo qualche anno fa sul Financial Times: l’agonia potrà essere ancora lunga, ma è improbabile che nella sua forma corrente l’eurozona possa sopravvivere”.

 

Scusi, ma non le sembra anche la posizione delle destre sovraniste, da Le Pen a Salvini?

“In realtà è la posizione della ricerca scientifica, che ci dice che regimi monetari come l’eurozona sono estremamente fragili e a rischio di implosione. Il fatto che oggi le destre sovraniste siano pronte a sfruttare i prossimi sussulti dell’unione monetaria per accrescere la loro forza egemonica è una tragedia di questo tempo. Ma non sarà chiudendo gli occhi dinanzi all’evidenza che potremo contrastarle”.

 

Il successo delle nuove destre scaturisce anche dalla lotta contro l’immigrazione. Questa ricetta sembra farsi strada anche a sinistra, come dimostra il caso della Linke in Germania. Non teme che sia in atto una specie di soggezione collettiva nei confronti delle destre populiste?

“I dati indicano che i problemi causati dall’immigrazione sono secondari: in larga misura, la guerra agli immigrati è solo un capro espiatorio che fa leva sulle pulsioni più irrazionali degli elettori. Purtroppo la tentazione di prendere questa scorciatoia è sempre più diffusa tra le forze politiche. La Linke sugli immigrati sta sbagliando, come del resto a volte mi è parsa ambigua anche la posizione di Melenchon in Francia. Ma a ben guardare la tentazione di cavalcare l’onda xenofoba colpisce soprattutto i partiti di establishment. In tema di immigrazione anche Macron insegue la Le Pen, e in Italia lo stesso Partito democratico ha assunto una linea molto più rigida nel tentativo di arginare l’avanzata leghista. E’ un errore gravissimo: in questo modo finiranno solo per rafforzare l’ascesa delle destre reazionarie”.

 

Come si può contrastare questo vento di destra?

“Per troppo tempo, in Europa e nel resto dell’Occidente, è prevalsa la favola secondo cui affidandoci ai meccanismi del libero mercato avremmo ottenuto sviluppo equilibrato e pace tra le nazioni. Invece ci svegliamo in un mondo in cui le tensioni tra debitori e creditori si accumulano, ed è quindi sempre più forte la tentazione dei singoli Stati di abbandonare gli accordi multilaterali e dare sfogo ai peggiori rigurgiti nazionalisti. Dovremmo hegelianamente comprendere che la bruta reazione sovranista di questi tempi è figlia indesiderata del liberismo globalista degli anni passati e dei suoi tremendi fallimenti”.

 

E quindi lei cosa propone?

“Mentre le destre reazionarie insistono con la ricetta oscurantista del rigido controllo dei movimenti di persone, chi vuol davvero contrastarle dovrebbe avanzare la proposta alternativa, razionale e progressista, di reintrodurre forme di controllo dei movimenti internazionali di capitale. La libertà indiscriminata dei possessori di capitali di spostare le loro ricchezze da un luogo all’altro del mondo a caccia di tasse risibili sui ricchi, basse tutele del lavoro e alti profitti speculativi, è alla base dei guai in cui versano l’eurozona e gran parte del mondo. Persino il Fmi oggi ammette che per ridurre l’instabilità dei mercati bisognerebbe reintrodurre qualche vincolo agli spostamenti di capitali. Invece le cosiddette forze progressiste inseguono le nuove destre sul terreno della guerra agli immigrati e ormai sembrano ripiegare sulla speranza che gli avversari politici siano spazzati via proprio da una fuga di capitali sui mercati finanziari. E’ una miscela perversa di xenofobia e liberismo, una posizione ottusa e perdente”.

 

Ma proporre il controllo dei movimenti internazionali di capitali non significa automaticamente uscire dall’euro?

“L’articolo 65 del Trattato di funzionamento dell’Unione ammette già, in casi straordinari, che i singoli Paesi membri attivino controlli sulla circolazione dei capitali. E’ una misura che è stata anche messa in pratica durante le crisi di Cipro e della Grecia, sia pure in modo eccezionale e tradivo. Occorre applicarla in modo estensivo e renderla sistematica. Non so se servirebbe a salvare l’euro, ma di certo sarebbe un primo passo per togliere linfa all’egemonia delle destre reazionarie e per dare al progetto di unità europea una concreta occasione di rilancio, nel segno della razionalità, del progresso e dell’equità sociale”.

 

Lei è stato definito “marxista”. Le è capitato per questo di sentirsi isolato nella comunità scientifica?

In effetti una parte rilevante della mia attività di ricerca prende spunto da una lettura in chiave moderna delle tesi di Marx e dall’obiettivo di evidenziare l’attualità di un metodo di studio che parte dal riconoscimento che la società è divisa in classi contrapposte. E’ un’impostazione la cui rilevanza scientifica è oggi ammessa persino dalle grandi testate della finanza internazionale, dall’Economist al Financial Times, ma che certo non aiuta a far carriera nel mondo degli economisti accademici, tuttora pervaso da un volgare conformismo. Eppure è interessante che negli ultimi tempi diversi giovani ricercatori abbiano scelto, nonostante tutto, di seguire questo approccio.

 

Al di là del metodo, anche nelle proposte politiche lei ha una posizione peculiare, critica sia verso gli entusiasti dell’euro che verso i cosiddetti sovranisti. Non saranno molti gli economisti a vederla come lei.

Per la verità ho espresso la mia posizione redigendo documenti che sono stati sottoscritti da  centinaia di colleghi, tra cui vari esponenti di vertice della comunità scientifica internazionale. Sotto questo aspetto non posso proprio dire di sentirmi isolato. Il problema emerge quando passo dalle aule accademiche alle arene politiche: nei talk show è stato sdoganato persino il razzismo, ma se qualcuno prova a parlare di vincoli alle scorribande internazionali dei capitali viene tuttora visto come un marziano. La scienza è già in grado di interpretare correttamente questi tempi turbolenti, ma la politica è ancora sorda.


Versione ampliata di un’intervista pubblicata sul Venerdì di Repubblica del 15 settembre 2018.

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