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A. Martone, Ecity

di Antonio Coratti

Come si evince dal sottotitolo del testo, Antropologia della tecnica, in Ecity Martone visualizza in maniera frontale la situazione antropologico-esistenziale dell’uomo contemporaneo e, per farlo, pone come oggetto di studio il contesto spazio-temporale della “città elettronica” e della sua genesi storica. Parafrasando Foucault, pertanto, Ecity si può definire un’ontologia dell’attualità, un’analisi critica del nostro presente protesa, da un lato, a farne emergere il percorso genealogico e, dall’altro, a prospettare possibili linee di emancipazione.

Contrariamente ai teorici del post-moderno, Martone evidenzia la sostanziale continuità tra l’epoca moderna e le logiche sottostanti all’attuale strapotere tecnico-scientifico che caratterizza l’Ecity. Il punto di rottura fondamentale è, piuttosto, quello emerso tra l’età cristiano-medievale e l’età moderna. Il passaggio è esemplificato da Martone attraverso i simboli caratterizzanti le logiche della vita politica, economica, sociale ed esistenziale delle due diverse epoche: la cattedrale per l’era cristiana e la frontiera per l’era moderna. La prima rappresentava «la trasformazione del Kaos, attraverso la mediazione di Dio e della Chiesa, in Kosmos ordinato» e, da questo punto di vista, «la cupola della cattedrale costituiva l’essenza della costruzione onto-teologica del mondo nella sua totalità.

Essa svettava verso l’alto, imponendosi come mediazione simbolica tra Dio e l’uomo[1]». La “frontiera”, invece, che subentra con la fine del mondo teologico-cristiano, incarna lo spirito dell’epoca moderna, fondata sull’«orizzontalizzazione dei rapporti umani – ciò che è meglio conosciuto come “uguaglianza”: antropologica dapprima, socio-economica in seguito, e infine giuridica[2]».

La nozione di uguaglianza e, soprattutto, il processo dialettico a cui essa è stata sottoposta nel corso dei secoli è, secondo Martone, il concetto fondamentale per comprendere tanto la modernità, quanto «quel lembo estremo di essa nella quale ancora viviamo (…) La modernità è l’uguaglianza e l’uguaglianza è la modernità[3]». L’analisi critica cui l’A. sottopone il concetto di uguaglianza e, con esso, quello correlato di democrazia, spesso assunti da molti autori a-criticamente come valori positivi in se stessi, è uno dei punti fondamentali dell’opera. Si tratta, invece, per Martone, di comprendere fino in fondo, e genealogicamente, che cosa l’uguaglianza abbia significato. A questo proposito, l’A. si richiama alla prospettiva di Tocqueville che per primo ha posto in rilievo «gli aspetti più dirompenti della politica moderna – i pericoli e le possibilità che la marcia verso l’uguaglianza democratica comportava[4]». È chiaro dunque l’intento di Martone: non si tratta di una valutazione ideologica dell’idea di “uguaglianza”, ma di analizzarne piuttosto il senso storico al di là del bene e del male: «il punto centrale da cui si irradia l’essenza antropologica e la visione del mondo dell’uomo democratico (…) consiste nel fatto che quest’ultima trasferisce le possibilità di “salvezza” dalla trascendenza all’immanenza[5]». La logica sottostante al principio di uguaglianza è, dunque, una logica di potere, un discorso del potere che, con l’avvento della modernità, intende affrancarsi da ogni tipo di trascendenza politico-religiosa per auto-fondarsi nella propria immanenza: «la democrazia nasce insieme alla modernità e, per questo, l’uguaglianza democratica va a costituire il terreno antropologico sul quale si muovono, come su un terreno comune, tutti gli autori moderni di maggior rilievo[6]».

Alla base dei rapporti interpersonali che si stabiliscono una volta superate le comunità tradizionali, imperniate sulla «personalizzazione di rapporti diseguali», per lo più tramandati per nascita, è posto il contratto, strumento in mano al libero gioco dell’agire individualistico[7]. Laddove tuttavia i rapporti sociali vengano siglati in quanto contratto, «la stessa umanità dell’uomo è “misurata” dalla razionalità economica[8]». Il dissolvimento della sovranità politico-religiosa dell’ancien régime, la liquefazione progressiva delle plurisecolari mediazioni politiche della modernità, hanno spianato così la strada – inesorabilmente – al denaro, «nella sua infinita capacità di mediare[9]». Il denaro, nella nostra contemporaneità, è diventato pertanto il simbolo per eccellenza delle relazioni tra gli uomini. In realtà, nella Ecity, il denaro manifesta il proprio fondamento nichilistico stabilendo «relazioni di uguaglianza tra cose anche quando le cose stesse non presentano alcun elemento di uguaglianza o somiglianza[10]», ovvero esso si presenta come «una mera astrazione simbolica[11]». Proprio in virtù di questa assoluta astrattezza, come afferma Simmel, il denaro ha la capacità di creare rapporti fra gli uomini lasciando però gli uomini stessi al di fuori delle relazioni e, se da una parte, esso appare come «un farmaco che promette di non far sentire l’angoscia[12]», dall’altra – Martone lo afferma assai chiaramente – il denaro è la causa principale dell’alienazione dell’uomo tipico dell’ecity.

Il denaro e la sua forza attrattiva, inoltre, è alla base di un altro strato di senso posseduto dal simbolo della “frontiera”: mentre il primo era quello dell’orizzontalità dei rapporti, a fronte della verticalità che caratterizzava le relazioni sociali nell’era antica, il secondo è quello del limite. L’idea della frontiera, infatti, porta con sé quella di un orizzonte da raggiungere e da oltrepassare, di confini da superare alla conquista di nuove terre e di nuovi, ulteriori, obiettivi. La logica alla base della modernità si riscontra tanto a livello storico, di cui la scoperta dell’America rappresenta l’evento più eclatante, quanto a livello esistenziale. L’uomo moderno non deve mai fermarsi, non deve mai “perder tempo” (il tempo è denaro) soffermandosi su se stesso, deve sempre guardare oltre[13]. Nel testo di Martone emerge chiaramente, e in maniera del tutto originale, il continuo parallelismo tra gli aspetti storici, politici e quelli esistenziali che hanno segnato la modernità e che continuano a caratterizzare il contemporaneo. Nella sua ottica, del resto, storia e antropologia sono due facce dello stesso discorso della e sulla modernità. L’abbattimento della cattedrale come simbolo del potere “onto-teologico” equivale alla morte di dio, considerata niccianamente in quanto evento originario del nichilismo tipico dell’uomo moderno: «quando “Dio è morto”, ciò che rimane non può che essere “soltanto” il mondo. Orfani di Dio, gli uomini si proiettano allora senza alcuna reticenza sui propri desideri: vogliono gustarne il più possibile (…) Alla base della smaniosa attività dell’uomo democratico, c’è dunque qualcosa che somiglia a un lutto, un senso di vuoto[14]». Senza più trascendenze, l’uomo “uguale”, non più soggetto ai confini tracciati dalle forme di potere pre-moderne, ha desideri sconfinati e “illimitate potenzialità” che caratterizzano il suo “essere-per-il-successo-mondano”[15]. Tuttavia, questa infinità desiderante si scontra, naturalmente, con la limitatezza delle “possibilità concrete” che, da una parte, come aveva già intuito Hobbes, può generare il rischio (mortale) della lotta di tutti contro tutti e, dall’altra, può alimentare, in caso di insuccesso, uno dei mali più diffusi nella nostra stretta attualità, ossia la depressione e lo “sballo”.

Relativamente agli ultimi decenni, un sintomo chiaro del disagio della socialità è espresso assai bene dalle teorie ordo-liberali e, soprattutto, neo-liberiste del tardo ‘900. Il messaggio diffuso da questi apparati ideologici, infatti, è che «l’individuo, barricato nel proprio spazio vitale (…) possa conquistare/consumare tutto il mondo che le sue capacità “imprenditoriali” gli consentano di acquisire[16]». Per Martone, in realtà, lo spazio di azione libera e autonoma di ogni singolo individuo è molto ridotto e lo è sempre più nell’attuale città della tecnica. La stessa soggettività di ognuno di noi del resto – l’A. lo dimostra in maniera assai chiara – è formata e “costruita tecnicamente”. L’antropologia di inizio millennio appare plasmata perfettamente dalle logiche che dominano la Ecity e quindi l’idea di poter opporre l’apparato “oggettivo” della tecno-scienza ad una libera coscienza critica individuale rischia di essere soltanto una chimera della quale, del resto, il potere stesso ha bisogno per potersi legittimare come libertario. Questo è tanto più vero, ove si consideri che l’ultima frontiera della cibernetica è l’automazione, ossia l’amplificazione esponenziale della capacità di adattamento delle macchine al mutare delle condizioni presenti in un determinato ambiente. Da questo quadro teorico, genealogico e fenomenologico insieme, non è difficile dedurre che l’obiettivo finale della visione del mondo tipica del nostro tempo sia quello di superare completamente il senso dell’azione umana, nella sua imprevedibilità e creatività costitutiva, rendendo «prevedibile e indefinitamente reiterabile l’esperienza[17]».

La morte dell’uomo postulata da Foucault ne Le parole e le cose assume lineamenti sempre più chiari e più prossimi. Martone, nella sua opera, ne dà conto lucidamente, ricostruendo le logiche alla base di una città elettronica alla quale noi tutti siamo assoggettati, invitandoci a riscoprire il valore del vulnus originario dell’uomo e il senso costitutivo dell’«appartenenza all’Altro, nella consapevolezza che soltanto l’apertura di nuovi spazi comunitari potrà produrre risultati apprezzabili ai fini dell’approdo in una inedita fase storica[18]».


Note
[1] A. Martone, Ecity. Antropologia della tecnica, Rubbettino Editore, 2018, p. 104
[2] Ibidem
[3] Ivi, p. 104-105
[4] Ivi, p. 25
[5] Ivi, p. 25
[6] Ivi, p. 42
[7] Ivi, pp. 43-44
[8] Ivi, p. 92
[9] Ivi, p.97
[10] G. Simmel, Filosofia del denaro, Utet, Torino, 1984, pp. 219-220; in A. Martone, op. cit., p. 97
[11] Ibidem
[12] Ivi, p. 30
[13] Suggestiva l’analogia con il mito di Prometeo: «lo sguardo di Prometeo, concentrato nella corsa spasmodica in avanti, non ha mai avuto tempo di guardare la propria immagine riflessa nello specchio, né di guardare il cielo e di vederlo per quello che è, ossia un’entità ormai vuota»; Ivi, p. 107
[14] Ivi, p. 45
[15] Ivi, p. 44
[16] Ivi, p. 113
[17] Ivi, p. 141
[18] Ivi, p. 129

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