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Riflessioni dopo aver visto il film "Sulla mia pelle"

Il Collettivo Palestina Rossa dopo aver partecipato alle proiezioni del film “Sulla mia pelle” propone questa riflessione perché crediamo emerga una critica non tanto, o comunque non solo, alle cosiddette Forze dell’Ordine, ma all’odioso sistema in cui viviamo.

Sicuramente tra chi indossa una divisa esiste una piena responsabilità e complicità per crimini commessi nel Paese, da sempre, e sarebbero tanti e tanti gli episodi che potremmo ricordare: certo Stefano Cucchi, ma anche Aldrovandi, Uva, Magherini, Mastrogiovanni...ed indietro fino a ad arrivare a Franco Serantini o Giuseppe Pinelli, le varie stragi che si sono susseguite e così via.

I partiti, lo Stato, i media e la cosiddetta “opinione pubblica” sono sempre stati complici degli assassini, anche alcuni loschi personaggi traggono addirittura notorietà e coprono i loro delitti dietro una finta difesa di questi innocenti: pensiamo a chi ha lodato lo stupro della Libia sulle colonne dell’Unità per poi ripresentarsi su quelle de Il Manifesto come difensore dei diritti umani.

Il film, come era nelle intenzioni del regista e degli autori, è asciutto, riporta quanto è successo durante una settimana senza moralismi né giudizi, senza mostrare la violenza subita da Stefano, senza “aggiungere o togliere”. Racconta la realtà, ed è questa la forza dirompente con cui ogni spettatore ha dovuto confrontarsi.

Proviamo a leggere il film: innanzitutto Stefano non risulta un eroe, ma una vittima, una vittima anche di se stesso. Pochi, forse nessuno ha rilevato il desiderio di morte che lo ha accompagnato. Lo si evince dall’assunzione di sostanze di cui ha fatto uso, ma lo si può rilevare anche in tutti i momenti in cui ha rifiutato un aiuto.

La scena che lo esplicita chiaramente arriva poco prima della fine del film, quando oramai agli sgoccioli della vita, chiede alla guardia una tazza di cioccolata. La guardia, assente, non s’accorge della morte oramai vicina di Stefano e gli propone una tazza di thè, un succo di frutta, una spremuta di arancia, una coca-cola…ma Stefano sta esprimendo l’ultimo desiderio: vuole una tazza di cioccolato, non di qualsiasi altra cosa.

E, accolto il diniego, chiude gli occhi e muore.

Questa scena a noi ricorda la fine di Holger Meins, assassinato il 09 novembre 1974: anche lui capisce che sta morendo perché lo hanno portato alla morte e dolcemente chiude gli occhi e muore. Non è dato sapere quali siano stati i suoi ultimi pensieri, come nemmeno quelli di Stefano Cucchi.

Ma Stefano muore non solo per le botte degli assassini. In quegli interminabili sette giorni nessuno ha fatto nulla per salvarlo. Nemmeno lui. Eppure le occasioni non sono mancate, potevano farlo gli agenti di custodia, il giudice che lo ha condannato, i carabinieri, i medici o gli infermieri, persino la famiglia.

Il dato di fatto è che nessuno ha fatto nulla.

La famiglia solo dopo la sua morte ha preso una decisione irremovibile: «vogliamo vederlo, da qui non ce ne andiamo». Sia chiaro, non intendiamo colpevolizzare nessuno e nessuna, ma nello stesso tempo non vogliamo sottrarci dal denunciare il livello di subalternità e di estraniazione dalla civiltà che questo paese ha raggiunto.

Un dato è certo: nel film aleggia chiaramente la paura. La paura di tutto ciò che presenta la legalità, che è del tutto idiosincratica rispetto alla giustizia. Nelle nostre società siamo pieni di “legalità”, ce la fanno ingoiare quasi con l’imbuto, in un sistema di alimentazione forzata. Ma di giustizia no, di quella abbiamo arsa la gola.

Anche Stefano lo sa, così come suo padre: entrambi hanno paura che denunciando al sistema “legalità” cosa è veramente successo, chiedendo alla “legalità” semplicemente di essere giusta, le conseguenze sarebbero state peggiori. «Non sarei più uscito dalle loro mani», dice Stefano, mentre il padre si chiede come avrebbe potuto denunciare delle forze dell’ordine dinnanzi ad un giudice che stava scegliendo per la vita di suo figlio.

Ecco, cosa ha ucciso Stefano, oltre a tutto il resto. La cruda e asciutta consapevolezza che, inseriti in un sistema di legalità che fa del suo abuso di potere e di giudizio indiscriminato e moralista il suo trono dorato, in un sistema volutamente disumano e disumanizzante, la giustizia risulta una chimera irraggiungibile.

E, a quel punto, resta la dignità, quella sì, umana: «Perché, non si vede che mi hanno massacrato di botte?! Pare che il giudice non se ne sia accorto...».

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