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sinistra

Un Paese in vendita. Il Niger nel mercato del Sahel

di Mauro Armanino

Niamey, Novembre 2018. Vendiamo le migliori cipolle del Sahel. Per imparare a piangere più in fretta quando occorre. Vendiamo carne di ottima qualità, troppo cara per le famiglie povere dei quartieri della capitale Niamey. Nel mentre si progetta di costruire una delle macellerie con camere frigorifiche più importanti della regione. Vendiamo la sabbia a chiunque voglia installarsi, con garbo, nello spazio saheliano. Del vento neppure a parlarne: arriva gratuito e dunque si offre a prezzo scontato, secondo le circostanze. E’offerto a cittadini e residenti occasionali quasi a ogni stagione dell’anno. Il turismo, lui pure in vendita, è stato spazzato via dalla storia dei rapimenti di occidentali e dai gruppi armati del Nord del paese che della non pace hanno fatto il loro business.

Vendiamo migranti ai migliori acquirenti della piazza. Agenzie umanitarie, ONG improvvisate al momento, associazioni, club amatoriali, giornalisti d’inchiesta, ricercatori, antropologi, autisti, commercianti all’ingrosso e al dettaglio, militari e strateghi. Tutti in cerca di loro, meglio se irregolari, illegali e clandestini: saranno meglio apprezzati dal mercato. Gli specialisti di diritti umani, quelli per curare i traumi post migratori, gli addetti al rimpatrio, gli assistenti sociali, i salvatori del deserto col telefono giallo-sabbia e infine coloro che denunciano gli abusi nei campi di detenzioni.

Ad ognuno il suo tornaconto e i fondi per alleviare le conseguenze delle politiche migratorie. Un mercato senza fine, se mettiamo insieme gli addetti ai controlli del territorio.

Vendiamo agli interessati la nostra posizione strategica. Nel cuore del Sahel, appena sotto la Libia contesa e divisa per convenienza, l’Algeria che deruba e espelle migranti, rifugiati e affini, e financo del Mali che è come l’autostrada della cocaina, delle armi e dei gruppi armati. La Nigeria che grazie a Boko Haram trova argomenti sempre attuali per aggiungere armi e capitali alle sue truppe. Il Burkina Faso che esporta il tradimento della rivoluzione e ai confini col Niger c’è una terra di nessuno da occupare. Gli esperti militari fanno incontri, piani, progetti e domandano finanziamenti per intervenire. Tanto finch’è c’è guerra c’è speranza che tutto cambi affinché tutto rimanga come prima. Siamo una garanzia di stabilità in un contesto friabile, minaccioso e dunque idoneo a rassicurare gli investitori occidentali e cinesi del Sahel.

Vendiamo con consumata perizia le nostre frontiere. Milioni di euro per formare i nostri addetti ai controlli. Ora si stanno organizzando persino strutture mobili che, nel deserto di sabbia e di sassi, potranno catalogare, individuare, classificare e schedare per sempre coloro che oseranno passare le frontiere senza il permesso di farlo. L’Olanda con 4 milioni di euro e la Germania con 6 hanno recentemente promesso di finanziare le compagnie mobili per il controllo delle frontiere (CMCF). La lotta alla criminalità e quella alla migrazione irregolare sono equiparati, assimilati e infine soldati. Il finanziamento del progetto si inscrive nel quadro delle azione dell’Unione Europea nel Niger come gesto politico ‘forte e inequivocabile’.

Vendiamo, infine, quello che mai dovremmo vendere. La dignità di un popolo di sabbia che meriterebbe ben altro che l’ultimo posto nell’indice di sviluppo umano. Vendiamo la politica, la sovranità, l’economia, la storia e il futuro dei figli nati in questa porzione di mondo. Vendiamo ciò per cui altri hanno dato la vita, per quanti hanno creduto in un Paese più eguale, per chi, anche solo per un stagione, ha sperato che la storia prendesse un’altra direzione. Vendiamo persino Dio a coloro che sono persuasi di sapere meglio di Lui cosa significhi essere credenti. Vendiamo ai commercianti di turno le parti migliori della Costituzione che riconosce in ogni cittadino il depositario della sovranità. Vendiamo, senza battere ciglio, quanto rimane della giustizia che una volta sembrava spuntare dalle indipendenze.

L’unica realtà che non si può vendere nel Paese è la sofferenza dei poveri perché non ha prezzo.

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