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Il ruolo storico della tecnologia

di Enrico Galavotti

Naturalmente è facile obiettare che se l'uso continuo della macchina impigrisce il cervello, la macchina è pur sempre il prodotto di un cervello che non vuole essere pigro. La mente umana sembra essere fatta apposta per modificare sistematicamente gli strumenti della propria attività, ottenendo risultati sempre diversi. Non può essere imbrigliata da alcuna forma di coercizione.

Dunque, una volta creato un determinato strumento produttivo, è impossibile tornare indietro, fingendo che ciò non sia mai avvenuto. Il che ovviamente non vuol dire che non possano esserci regressioni tecnologiche. Quando distrussero l'impero romano d'occidente, i barbari non sapevano cosa farsene di fognature urbane, acquedotti, terme e quant'altro. Preferivano vivere nelle campagne. Lo stesso avveniva quando le popolazioni nomadi sterminavano quelle stanziali, più evolute tecnologicamente, ma anche terribilmente schiavistiche e colonialistiche.

È vero che oggi la gran parte degli strumenti che usiamo non siamo in grado, individualmente, di produrli, ma siccome viviamo in società molto complesse e non in comunità sperdute in luoghi isolati, confidiamo che ci sarà sempre qualcuno in grado di costruirli e di ripararli quando si rompono o di sostituirli quando invecchiano.

Dovrebbe succedere qualcosa di assolutamente catastrofico per rinunciare alla tecnologia (in tutto o in parte) che attualmente abbiamo, e anche in quel caso lo faremmo pensando a una fase transitoria, come p.es. succede quando scoppiano delle guerre.

Quindi il problema sembra non risiedere nella tecnologia in sé. Cioè sembra non doverci essere un'obiezione fondata all'idea che il socialismo futuro dovrà assicurare l'uso della tecnologia borghese all'interno di una socializzazione della proprietà dei mezzi produttivi. Eppure le cose non sono così semplici. È vero che l'essere umano sembra essere dotato di una mente incredibilmente versatile, ma è anche vero che vuole essere “padrone” dei mezzi che usa, senza dover sempre dipendere dall'esterno, meno che mai da estranei. Diciamo che, piuttosto che da estranei, tendenzialmente si preferirebbe dipendere da persone che si conoscono. L'ideale sarebbe che la dipendenza fosse reciproca. Inutile dire che nell'ambito del capitalismo questo è un miraggio.

Il fatto è che chi non si sente padrone dei propri mezzi, teme sempre che altri possano condizionarlo, ricattarlo, intimidirlo, approfittare della sua debolezza cognitiva o precarietà materiale, della sua semplicità, ingenuità, buona fede. L'uomo è un essere sociale, ma solo oggi ha la percezione che la comunità in cui vive non sia affatto un prodotto della propria volontà, un qualcosa che sta in piedi grazie anche al proprio contributo. Per poter essere convinti d'essere “padroni” di qualcosa, bisogna disporre d'ingenti beni, mobili e/o immobili.

Sin dalla nascita noi entriamo in un contesto sociale che ci precede nel tempo, ma, man mano che cresciamo, siamo sempre più desiderosi di volerlo migliorare. Fino a mezzo secolo fa si aveva quasi la convinzione di poterlo perfezionare. Ebbene, oggi questa percezione l'abbiamo persa. Siamo sempre più persuasi di appartenere a un collettivo troppo complicato per le nostre capacità. Non ci sentiamo più protagonisti del nostro destino.

La scienza e la tecnica si sono così affinate da rendere impossibile il contributo creativo di una persona di media cultura. Occorrono sempre degli specialisti. La scienza è diventata un'attività per studiosi che amano dedicarci a un unico settore dello scibile umano. È diventata qualcosa di così settoriale da far sentire la persona comune del tutto impotente, che quasi si vergogna della propria incompetenza.

Ma non c'è solo questo aspetto di estrema complessità delle cose quotidiane (che a volte riguarda anche quelle di più semplice uso) che ci disarma. L'uso incessante delle macchine non impigrisce solo il cervello, ma infiacchisce anche l'intero corpo. La scienza che produce tutte le comodità possibili, ci rende obesi, fisicamente deboli, al punto che siamo costretti a fare continui esercizi ginnici per stare in forma. Ciò è assurdo.

Dovrebbe essere il lavoro stesso a renderci tonici. È vero che con la scienza siamo in grado di risolvere i nostri problemi fisici (assumendo p.es. medicine sintetiche, sottoponendoci a interventi chirurgici, acquistando strumenti ginnici), ma, così facendo, finiamo in un circolo vizioso: per compensare i guasti che una strumentazione artificiosa procura al nostro corpo, siamo costretti, per ripararli, a usare nuovi strumenti non meno artificiosi. Dunque anche le comodità prodotte dalla scienza creano dipendenza.

La scienza sembra essere diventata una specie di droga: non riusciamo più a liberarcene. Anzi, tendiamo ad assumermene dosi sempre più massicce, al punto che ci riempiamo la casa di oggetti tecnologici il cui uso è molto limitato nel tempo o circoscritto nel luogo o nella funzione. Tutta questa tecnologia acquistata, che supera di parecchio le nostre necessità vitali e le nostre capacità di utilizzo, è destinata a durare ben oltre la nostra esistenza terrena. Quante volte ci diciamo che abbiamo computer che sono delle “Ferrari” e che usiamo come delle “Cinquecento”?1

Ciò non può non avere delle ricadute sulla natura. In questo momento la natura, lasciata a se stessa, è in grado di riciclare, in maniera relativamente veloce, ben pochi degli strumenti che usiamo nel corso della nostra esistenza. Per alcuni oggetti noi potremmo campare anche mille anni che non vi riuscirebbe (pensiamo p.es. alle tante pile o batterie che usiamo). Sembra che le esigenze riproduttive della natura siano l'ultimo dei nostri problemi. Solo quando procuriamo, coi nostri artifici tecnologici, immani disastri, da compromettere l'ambiente in cui viviamo, ci accorgiamo di quanto la natura sia importante.

È da quando sono nate le civiltà schiavistiche che tendiamo a desertificare il pianeta. E da quando abbiamo fatto la prima rivoluzione industriale, ciò avviene a ritmi frenetici: stiamo trasformando la Terra in una gigantesca discarica. Noi vogliamo essere “dominatori” della natura e finiamo col dover vivere un'esistenza del tutto artificiale, che non ha nulla neppure di umano. Infatti umano e naturale non possono viaggiare separati: per poterci dichiarare “umani” abbiamo bisogno che la natura ci metta a disposizione le sue leggi fondamentali, anche se a noi sembra che solo gli animali debbano dipendere da tali leggi.

Dunque che rapporti dovrà avere il socialismo autogestito con la scienza? Anzitutto dovrà aver chiara una cosa sin dall'inizio: un socialismo può definirsi “autogestito” solo se ha valenza locale. Cioè dovrà usare una tecnologia soltanto per soddisfare le esigenze effettive di una comunità locale. Senza autonomia gestionale, da esercitarsi in un determinato (ristretto) territorio, il socialismo non può essere realizzato in maniera democratica. Una comunità deve essere autosufficiente, autarchica, non può dipendere da entità esterne, come Stati e Mercati. Se esiste un mercato, si scambieranno le eccedenze quando lo si riterrà opportuno. E così dovrà essere per gli organi di potere sovralocali: verranno convocati in caso di necessità, senza alcuna pretesa di istituzionalizzazione.

Il territorio in cui si vive va difeso a oltranza, soprattutto nei confronti di chi cerca di saccheggiarlo, deturparlo o manometterlo in qualsivoglia maniera. La natura è sacra, è ciò che ci permette di vivere. Se non si rispettano le sue esigenze riproduttive, qualunque nostra attività va considerata rischiosa. Tutto ciò che usiamo deve poter essere riassorbito dalla natura in tempi accettabili. Un qualunque strumento di lavoro ha senso se la generazione successiva può continuare a usarlo più o meno nello stesso modo in cui era stato costruito, altrimenti è meglio pensare a come la natura possa riciclarlo. Cioè se non siamo capaci noi umani a riutilizzarlo, dobbiamo pensare a come possa farlo la natura. Di sicuro non possiamo tenerlo per sempre in una discarica.

Il concetto di natura che dobbiamo avere va messo in relazione alla necessità che abbiamo di vivere in un contesto locale. Tutta la scienza va finalizzata alla necessità di soddisfare esigenze di una comunità locale. Le decisioni su quali strumenti darsi per rispondere a tali bisogni, devono per forza essere collettive. La responsabilità nell'uso della tecnologia deve ricadere sullo stesso collettivo che la produce. Autonomia gestionale vuol dire responsabilità diretta da parte di una comunità locale che può prendere decisioni su come condurre la propria esistenza.


Note
1 La rivoluzione informatica presenta aspetti (soprattutto linguistici) alquanto complessi, per nulla paragonabili alle precedenti rivoluzioni scientifiche (meccaniche, chimiche, elettriche...). Per poterla gestire in maniera adeguata occorrono competenze molto specifiche. Chi è padrone di queste competenze sembra essere in grado di dominare il mondo intero e di potersi arricchire con una incredibile facilità. Tuttavia per tenere in piedi una rivoluzione del genere occorrono risorse energetiche enormi, di carattere planetario, ivi inclusi gli impianti satellitari. Un black-out energetico di tali risorse metterebbe in ginocchio non solo l'economia digitale ma anche tutta l'economia produttiva (come successe in California nel 2001, cioè quando le compagnie private, che avevano soppiantato il monopolio statale, si erano accorte di non poter far fronte al fabbisogno energetico dello Stato). Tutto sembra essere così pericolosamente fragile e persino indipendente dalla volontà degli Stati nazionali.

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