Print Friendly, PDF & Email

alfabeta

Filosofia italiana, differenza della ripetizione

di Paolo Godani

A scorrere la lista dei libri di ambito filosofico pubblicati nel corso dell’ultimo anno e mezzo si può trovare conferma di alcune direzioni generali che da tempo sembrano caratterizzare in Italia la fragile editoria del settore.

La filosofia in Italia conferma, innanzitutto, la tendenza storica a presentarsi, per lo più, come un’indagine dell’attualità, in presa diretta sugli elementi sociali e politici del mondo contemporaneo, come si vede considerando alcuni dei testi più significativi usciti in questi ultimi mesi: Forza lavoro di Roberto Ciccarelli (DeriveApprodi), Politica e negazione di Roberto Esposito (Einaudi), Stranieri residenti di Donatella Di Cesare (Bollati Boringhieri), Crisi come arte di governo di Dario Gentili (Quodlibet), Lo sciopero umano e l’arte di creare la libertà di Claire Fontaine (DeriveApprodi), per nominarne solo alcuni, sono tutti testi che cercano di produrre categorie filosofiche a partire dalle contingenze dell’epoca.

Un secondo dato significativo, benché dalla portata ben più limitata, riguarda il fiorire degli studi che si collocano tra psicoanalisi (in particolare lacaniana) e filosofia, ovvero che sconfinano dall’una verso l’altra. Mi limito qui a segnalare due libri estremamente diversi tra loro, che pure pongono in maniera esplicita l’esigenza del dialogo tra le due discipline.

Il primo è il testo di Luigi Francesco Clemente, Jacques Lacan e il buco del sapere. Psicoanalisi, scienza, ermeneutica (Ortothes), che a partire dal confronto tra Lacan e Ricoeur perora la causa di un’analisi che non si riduca a una mera ricerca sul senso della vita e delle cose; di una psicoanalisi che dunque non ha niente a che vedere con i dolci sentieri dell’interpretazione, ma che si profila piuttosto come la ricerca di un contatto rischioso e aspro con il reale. Il secondo testo che vorrei qui nominare, a testimonianza della ricchezza di questo dialogo tra psicoanalisi e filosofia, è il lavoro di Yuri Di Liberto, Il pieno e il vuoto. Jacques Lacan, Gilles Deleuze e il tessuto del reale (Orthotes), nel quale si tenta, per così dire, una conciliazione ontologica della discrepanza fondamentale che sembra separare il discorso lacaniano sulla mancanza come causa del desiderio e quello deleuziano sul desiderio che non manca di nulla.

Per entrare nell’ambito dei testi propriamente filosofici, si può notare in primo luogo il declino lento, ma non ancora abbastanza inesorabile, dei testi meramente accademici. L’esplosione di pubblicazioni a soli fini concorsuali, che si era avuta attorno al 2008, tende lentamente a spegnersi sia in ragione del calo sensibile dei finanziamenti ministeriali, sia perché le regole della famigerata Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario (Anvur), secondo una logica mutuata dal sistema anglosassone, scoraggiano la produzione di libri spingendo piuttosto verso la pubblicazione di articoli su rivista. A questo diradarsi delle pubblicazioni accademiche, tuttavia, non corrisponde affatto, a parte le eccezioni di cui diremo subito, la ripresa di una scrittura più libera dai vincoli stilistici e settoriali. Sembra, in effetti, che sia sempre più esiguo lo spazio editoriale per i testi situati tra la saggistica accademica e quella “giornalistica”.

Le eccezioni a questo stato di cose non sono numerose, certo, ma proprio per questo sono ancora più significative. E soprattutto sono eccezioni che disegnano, forse non casualmente, un campo di questioni e problemi comuni: la serialità, l’automatismo, l’abitudine, la ripetizione.

La Filosofia dell’automatismo. Verso un’etica della corporeità di Igor Pelgreffi (Orthotes), ad esempio, pone il problema dello statuto e della genesi dei meccanismi psicologici e sociali della ripetizione e dell’abitudine, per mostrare come le resistenze del corpo possano aprire la via di un’emancipazione intesa come liberazione dalla passività. Su un terreno problematico analogo, benché con una prospettiva storica più ampia e con esiti differenti, si pone Marco Piazza che con Creature dell’abitudine. Abito, costume, seconda natura da Aristotele alle scienze cognitive (il Mulino) ripercorre le trasformazioni che l’abitudine e i suoi derivati hanno subito nella storia della cultura occidentale. Ancora sulla medesima linea, a testimonianza del fatto che forse, finita con la chiusura del secolo scorso la lunga sbornia individualistica e personalistica, si è tornati a pensare seriamente agli elementi che costituiscono la nostra vita comune, Marina Montanelli mette a tema, partendo da Walter Benjamin, Il principio ripetizione (Mimesis), cioè quella tendenza tipicamente umana che forse, se pensata in relazione alle abitudini ludiche dei bambini, non si riduce a mera “coazione”, ma manifesta il carattere della creatività, cioè della produzione del nuovo a partire da materiali dati. Nel testo di Montanelli, come in quelli di Piazza e Pelgreffi, la questione che viene messa in primo piano, come problema centrale della nostra epoca, è quella del modo in cui possiamo conservare la plasticità e le potenzialità innovative dei nostri comportamenti in un contesto nel quale l’automatismo e la ripetizione tendono a produrre effetti di omologazione generalizzata.

Anche uno dei libri più appassionanti usciti in questo periodo, Lo spettacolo di sé. Filosofia della doppia personalità di Barbara Chitussi (Meltemi), sembra poter rientrare in questa linea di tendenza, dal momento che ne svela la questione di fondo. Il problema dell’automatismo e dell’abitudine, in effetti, non esisterebbe se la soggettività umana non avesse la singolare caratteristica di potersi osservare dal di fuori, di potersi cioè rapportare con la propria stessa natura come se non fosse propria o come se fosse un’altra. In questo senso l’imitazione, il fare da sé come un altro, si profila essere una forma di ripetizione primordiale che (come già l’Aristotele della Poetica aveva sottolineato) sta alla base di ogni nostra possibilità di conoscenza. Il che significa, e Chitussi lo mette in luce con grande finezza, che la preziosa autenticità dell’esperienza personale è da cima a fondo dipendente dall’habitus, dal gioco delle maschere ideali e sociali che indossiamo di volta in volta – ovvero, per dirlo con il rovescio di una formula trita (cha dà il titolo a uno dei capitoli del libro e che qui riacquista tutta la sua pertinenza), che l’abito fa il monaco.

A margine di questa produzione, si può notare come anche in Italia resista la possibilità di una filosofia, per così dire, pura. Non mi riferisco soltanto ad alcuni grandi vecchi del nostro pensiero, come Emanuele Severino e Vincenzo Vitiello che dialogano e “litigano” sui fondamenti dell’ontologia (Dell’essere e del possibile, Mimesis) o come Giorgio Agamben che in Creazione e anarchia (Neri Pozza) continua a interrogarsi sulla nozione di opera, dunque sulle nozioni fondamentali per l’intera metafisica occidentale di atto e potenza; ma anche ad autori come Paolo Virno e Rocco Ronchi (i cui ultimi testi non rientrano nella stretta forbice cronologica che ci siamo dati) e soprattutto a quello che è, senza ombra di dubbio, il testo di filosofia più importante dell’ultimo anno e non solo: La vita delle piante. Metafisica della mescolanza di Emanuele Coccia (il Mulino).

C’è almeno un punto sul quale il testo di Coccia risuona con quelli citati in precedenza sull’automatismo, l’abitudine, la ripetizione e la mimesi di sé: cioè l’abbandono definitivo di ogni pretesa autenticità ed eccezionalità della vita umana. Questo, in primo luogo, perché vivere, come testimonia appunto l’esistenza vegetale, è innanzitutto “vivere della vita d’altri”, assimilare, parassitare, cannibalizzare gli elementi che altri (non necessariamente umani) hanno prodotto, costruito, inventato. Ma anche perché bisogna riconosce che sull’autonomia della nostra personalità individuale, come su quella del nostro corpo vivente, primeggiano le mescolanze che inglobano corpi e persone in relazioni non umane, ma cosmiche. La nostra vita, spiega con precisione Coccia, non sta in noi, in interiore homine, come una tradizione coscienzialista e personalista ci ha insegnato a pensare, ma si situa fuori di noi, nell’atmosfera, nella luce, all’aria aperta. La vita delle piante, in effetti, è un saggio di quella che una certa tradizione romantica chiamava “filosofia della natura”, ma che getta le sue radici nelle speculazioni fisiche e cosmologiche dei primi pensatori pre-socratici occidentali, per i quali gli elementi costitutivi della physis non sono dell’ordine delle sostanze (poco importa se estese o pensanti), bensì degli eventi che di volta in volta si presentano come la condensazione dell’intero universo in uno solo dei suoi momenti.

Bisogna immaginare, come si suggerisce a un certo punto del testo, di essere fatti della stessa materia del mondo circostante, di non esserne separati, come fossimo soggetti indipendenti di fronte ad un mondo ostile, ma di esservi immersi, anzi di non essere, del cosmo, che una delle mille variazioni attuali: essere della stessa natura della musica, che è fatta delle vibrazioni dell’aria, o assumere le movenze della medusa, che altro non è se non un “ispessimento dell’acqua”. È una filosofia atmosferica quella che viene al contempo argomentata e prospettata in un quadro d’immagini fantastiche, una filosofia dell’immanenza che con echi stoici e neoplatonici pensa ogni singola cosa nel suo rapporto costitutivo con l’uno-tutto; una filosofia che ha bisogno di presentarsi quasi nella forma antica del poema (peri physeos, sulla natura) per rendere conto della materia oltre-umana che fa il nostro mondo al contempo denso, brulicante di vita e tuttavia aereo, pneumatico, astrale.

Comments

Search Reset
0
Eros Barone
Saturday, 01 December 2018 19:24
Siccome è innegabile che spesso i filosofi italiani confondono il proprio lavoro con quello dell'esegeta, limitandosi a commentare il lavoro degli altri o dei classici piuttosto che dedicandosi in prima persona alla ricerca filosofica, il primo criterio da adottare nel valutare le tendenze editoriali in questo àmbito così "fragile" (della filosofia italiana contemporanea), dovrebbe essere quello concernente l'autonomia logico-teoretica della ricerca filosofica. E' infatti difficile negare che questa confusione tra filosofia ed esegesi abbia caratterizzato una buona parte dell'attività filosofica dei "filosofi continentali". Soprattutto in Italia, e soprattutto nel dopoguerra, la filosofia si è consumata quasi interamente nei silenzi delle biblioteche e alla luce dolcemente e quietamente soffusa delle lampade da tavolo. Così nel paese europeo in cui si legge di meno, la filosofia si è lentamente trasformata in un'arte della lettura. Si è anche scritto tanto, beninteso. Ma soprattutto per raccontare quello che si leggeva o per commentare quello che si leggeva o per metterlo in relazione con qualcos'altro che si era letto o, ancora, semplicemente per non dimenticarlo. La produzione filosofica italiana del dopoguerra è stata, in effetti, una storia infinita e intricata di traduzioni, edizioni, riedizioni, prefazioni, postfazioni, postille, note a piè pagina, note in margine, note in calce. I contributi filosofici veri e propri si contano sulle dita delle mani e non c'è da sorprendersi se fuori del nostro paese si pensa che tutto sia finito con Croce e Gentile. Insomma, mentre il dibattito filosofico internazionale si arricchiva di poderosi contributi di nuove e importanti scuole di pensiero (da Foucault a Habermas, da Quine a Davidson, da Chomsky a Rawls), la filosofia italiana, "spasso per i gottosi", come gli scacchi, faticava a staccarsi dalla comodità degli schedari. Mentre altrove la tradizione storica si integrava col metodo analitico per gettare nuova luce su una serie di spinosi problemi filosofici (le cose sono veramente come ci appaiono? qual è la differenza tra credere e sapere? io e il mio corpo siamo una cosa sola?) o per portare alla luce problemi nuovi e fecondi (come si spiega il comportamento irrazionale? possiamo immaginare creature fisicamente identiche a noi ma mentalmente differenti? qual è il fondamento della nostra capacità di trarre inferenze logiche?), da noi ci si perdeva negli interminabili labirinti dei commentari ai commentari dei commentari (qual è la radice storicistica della "prolusione palermitana" di Gentile? è possibile documentare infiltrazioni neo-tomiste nel commento di Giacomo Zabarella agli "Analitici posteriori" di Aristotele? Esiste un presupposto wittgensteiniano nell'interpretazione che Cacciari fornisce del "Nietzsche" di Heidegger?). Insomma, a mio giudizio (sono un insegnante di filosofia in pensione, ma sempre attivo nella ricerca), non si può dire che oggi la situazione sia radicalmente mutata. Però forse negli ultimi tempi un cambiamento di rotta c'è stato ed è bene registrarlo. Si continua a leggere tanto, ma si comincia anche a discutere. E mentre la passione per l'esegesi continua (in certi casi con risultati di tutto rispetto, beninteso), comincia a farsi strada anche l'"onesto mestiere" (espressione, questa, cara a Giulio Preti) del filosofo che discute e analizza in prima persona temi e problemi autenticamente filosofici. E' il caso di augurarsi che tale cambiamento si compia, prima ancora che tra le file degli intellettuali di professione, tra gli studenti di filosofia, i quali dopo aver letto e scritto per anni che la filosofia non è una dottrina ma un'attività, potrebbero scoprire anche il piacere di questa attività: non di quella predicata ma di quella praticata.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit