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Gran Bretagna e Venezuela: ora inizia la guerra dell’oro

di Andrea Muratore

Nello scorso mese di agosto il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha ordinato alla Banca Centrale di Caracas di chiedere alla Bank of England la restituzione di 1,4 tonnellate di lingotti d’oro delle riserve nazionali conservati in custodia a Londra per fare fronte a impellenti esigenze economiche legate alla crisi del Paese. L’importante quantitativo di oro, pari al 10% delle riserve auree venezuelane che complessivamente valgono circa 550 milioni di dollari, è stato tuttavia trattenuto dalla Bank of England, scatenando le violente reazioni dell’esecutivo bolivariano.

Il presidente dell’Assemblea Nazionale Costituente e vicepresidente del Partito Socialista Unito del Venezuela, Diosdado Cabello ha dichiarato che la mossa della banca britannica “fa parte della guerra dei poteri internazionali contro il Venezuela. […] È una guerra su tutti i fronti: politico, economico, finanziario e sociale. L’unico che manca è il fronte militare”. Secondo il Times, il diniego al ritorno dell’oro in Venezuela è stato avanzato perché si teme “che il governo di Nicolás Maduro lo venda per beneficio personale”.

 

Sull’oro venezuelano è guerra aperta

La base legale su cui si fonda il diniego britannico è controversa.

Nel contratto di custodia dell’oro venezuelano, siglato nel 2011 quando Hugo Chavez portò all’estero le riserve auree del Paese, spunta una clausola che dice esplicitamente: “La Bank of England si riserva il diritto di non restituire l’oro sovrano in custodia e di impedirne anche la visione”, ed è prevista avere validità in momenti di difficoltà economico-finanziaria.

Non è certamente un periodo facile per la Gran Bretagna, mentre la sua banca centrale e la sua finanza scalpitano in attesa di sapere cosa accadrà dopo la realizzazione della Brexit. In questo contesto, Londra cerca di massimizzare ogni componente politica od economica che ne sottolinei lo status di potenza. E il ruolo della Bank of England come custode di ultima istanza, assieme alla Federal Reserve di New York, di buona parte delle riserve auree globali è una di queste.

Del resto, scrive Alessandro Plateroti sul Sole 24 Ore, ultimamente “l’oro sovrano è tornato ad occupare un ruolo chiave per Stati e mercati. Sia come riserva di valore in caso di crisi valutaria o sistemica, sia come garanzia collaterale per gli investimenti speculativi o per il bilanciamento dei rischi di portafoglio”.

 

Oltre la crisi col Venezuela: sull’oro un avvertimento fondamentale

Plateroti prosegue poi analizzando le profonde implicazioni geoeconomiche del possesso di ultima istanza dell’oro di Paesi terzi da parte di Fed e BoE: “la segretezza che circonda la gestione delle riserve auree straniere è talmente alta e protetta da aver creato forti sospetti su un loro utilizzo improprio per operazioni di mercato tra le due grandi banche centrali e i loro interlocutori del sistema finanziario: in sintesi, lingotti di altre nazioni verrebbero dati in prestito (a loro insaputa) a banche ed hedge fund, o cartolarizzati in Gold Certificates, dietro l’impegno delle parti a non reclamare mai la proprietà dei lingotti alla scadenza dell’operazione. Tutto deve chiudersi in dollari o sterline”.

Pratica vietata, certamente, ma coperta dalla segretezza e dal riserbo, nonché dalla grandezza delle riserve a disposizione. La Bank of England tiene sotto chiave oltre 200mila lingotti d’oro sovrano di proprietà dei governi di oltre 70 nazioni: 150 tonnellate di oro in tutto, un quantitativo che tuttavia da solo è pareggiato dalla porzione di oro italiano depositato a Londra. Esso, come ricordato dal Giornale, ammonta a 141 tonnellate. Cifre da capogiro, ma comunque inferiori al dato statunitense: Fort Knox, nominalmente, dovrebbe ospitare 1060 delle 2452 tonnellate di oro italiano, depositarie di un valore complessivo da 100 miliardi di euro.

Nel complesso, quasi la metà dei 1.360 miliardi di dollari delle riserve auree mondiali è ancora nelle mani dei due grandi guardiani della finanza internazionale. Ma riprendersele non è più tanto facile, come dimostrato dal Venezuela o dal lungo tira e molla tra gli Stati Uniti e la Germania, che nel 2017 potè rimpatriare 130 tonnellate d’oro solo dopo aver minacciato una crisi diplomatica. Nulla più del simbolo stesso della ricchezza può essere, nel mondo globale, oggetto di competizione. Ma si tratta di una competizione asimmetrica, dove pochi centri primeggiano e dettano le regole a tutto il sistema globale. Cosa si celi dietro il manto di segretezza che avvolge il mondo dell’oro non è dato sapersi.

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