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eticaeconomia

L’Italia dei sovranisti maleducati nell’Europa dei sovranisti perbene

di Roberto Tamborini

Il cosiddetto “sovranismo” che scuote l’Unione europea (UE) e allarma gli europeisti non è un virus sconosciuto giunto da un lontano pianeta, e non verrà sconfitto con l’ipocrisia. La sovranità nazionale è un elemento fondativo della storia europea, e l’accompagna da secoli. La nascita e lo sviluppo delle relazioni e istituzioni sovranazionali culminate nella UE è tuttora, in prospettiva storica, una sorprendente eccezione, ancora incompiuta. Essa continua a costruirsi e definirsi essenzialmente mediante trattati internazionali sottoscritti da stati sovrani. Tali trattati sono il risultato di negoziati che riflettono i rapporti di forza del momento tra i “soggetti indispensabili” (coloro senza i quali non si stipula alcun accordo). Gli interessi dei “soggetti non indispensabili” vengono integrati per rappresentanza o cooptazione, posto però che essi agiscano in maniera appropriata. Caso emblematico i trattati dell’ Unione monetaria che, come noto, sanciscono il punto di equilibrio tra i due principali contraenti, Francia e Germania. L’Italia fu ammessa grazie ai buoni auspici della Francia, ma anche grazie allo status di paese fondatore della UE, alla credibilità e alle relazioni dei leader dell’epoca, e alle loro capacità negoziali.

Nel giro degli ultimi dieci anni l’Europa è stata investita in rapida successione da tre eventi drammatici di enorme portata: la crisi economica e finanziaria, le ondate migratorie, gli attacchi terroristici.

Questi eventi ne hanno scosso nel profondo l’identità stessa: prosperità, benessere, diritti civili, sicurezza, pluralismo, tolleranza. Essi hanno anche un filo rosso comune: la fragilità e inconsistenza delle istituzioni che costituiscono la UE rispetto agli stati nazionali. Istituzioni sofisticate e complesse, non sono in grado di dare risposte pronte ed efficaci di ordine globale a crisi di ordine globale. In tutti e tre i casi l’UE si è avvitata in un circolo vizioso in cui l’inefficacia ha spinto i cittadini a chiedere a gran voce la protezione dell’identità e degli interessi nazionali, e la pronta risposta dei governi nazionali (di ogni colore politico) l’ha indebolita ulteriormente senza peraltro riuscire a risolvere i problemi.

In questa drammatica fase storica, l’Europa è tornata istintivamente nell’alveo primordiale dei negoziati tra sovrani e relativi rapporti di forza. Questo è ancora lo spartito che gli stati nazionali sanno suonare a memoria, anche in contesti e consessi fondati su princìpi di eguaglianza e pari dignità di tutti i membri, e su sistemi di regole che dovrebbero valere per tutti. L’elaboratissima costruzione che contiene gli stati nazionali europei, nella sua incapacità di produrre azione politica, è, appunto, un contenitore, che limita formalmente lo spazio di sovranità nazionale, e ne costringe una declinazione, anche lessicale, consona ai princìpi che definiscono il contenitore medesimo.

Oggi la misura della potenza degli stati nell’arena europea è prima di tutto quella dei centri economico-finanziari che vi risiedono (temporaneamente?), a cui fa seguito quella dell’apparato istituzionale, politico e tecnocratico. La quale si estrinseca anche, o forse soprattutto, nella capacità di penetrazione e condizionamento della sovrastruttura dell’UE. Un campo di gioco ignoto ai sovrani d’un tempo, che cambia molto la forma, ma poco la sostanza del gioco.

Lo si è visto attraverso le modalità, brutalmente “intergovernative”, con cui è stata gestita la crisi economico-finanziaria, e istituzionale, dell’Unione monetaria, e che hanno ricreato l’ambiente ideale per la rinascita del sovranismo. Come scrisse Charles Wyplosz già nel 2014, ” Il ‘metodo comunitario’ è stato soppiantato da quello intergovernativo della peggior specie (…) Una specie inefficace perché ogni paese potrà sempre utilizzare la propria influenza per portare avanti soluzioni che soddisfano i propri interessi (…) E anche pericolosa politicamente perché le altre opinioni pubbliche saranno portate a lamentarsi della situazione. Il suo drammatico impatto economico e sociale ha lasciato una percezione disastrosa di cos’è l’Europa. I costi saranno cospicui nel lungo periodo” (The Eurozone crisis: A near-perfect case of mismanagement, Journal of Applied Economics).

Il lungo periodo è ora. E ora abbiamo due specie di sovranisti, quelli perbene e quelli maleducati.

I sovranisti perbene rispettano i trattati e le regole che hanno scritto e sottoscritto sancendo l’equilibrio dei rispettivi poteri ed interessi. Ma i trattati non possono essere onniscienti e onnicomprensivi, presentano sempre incertezze applicative e margini d’interpretazione. Per questo esistono gli arbitri della partita che gli stati membri giocano nella UE. Questi arbitri però hanno miseri poteri di comando e sanzione. Inoltre, essi provengono dagli apparati politici e tecnocratici degli stati nazionali ovvero ne riflettono la capacità di disporsi sul terreno di gioco. Se, come s’è visto in occasione della crisi greca, gli arbitri tentennano, i plenipotenziari decidono espressamente, interpretando i trattati con un grado di creatività proporzionale al proprio status, e in forza della propria capacità di “governare mediante il panico”, il metodo dei potentati economici durante le crisi tra le due guerre che Karl Polanyi descrisse ne La grande trasformazione. La violazione delle regole fiscali del Patto di stabilità e crescita da parte di Francia e Germania nel 2003, la petizione popolare di pronunciamento della Corte costituzionale tedesca sulla illegittimità delle politiche monetarie non convenzionali della BCE nel 2016, e, su grande scala, la Brexit stanno a ricordarci che nessun legame europeo è intangibile ed eterno quando poteri e interessi sono in gioco.

I sovranisti perbene ammoniscono che non si litiga con l’Europa, mentre quelli maleducati si scagliano contro i tecnocrati di Bruxelles. In realtà i litigi con questo o quell’organo della UE sono, quasi sempre, scontri indiretti tra paesi con interessi conflittuali. Se il famigerato Gruppo di Visegrad è l’incubatore del sovranismo maleducato, nel marzo scorso si è costituita la cosiddetta Lega Anseatica, formata da Svezia, Danimarca, Olanda, Irlanda e i tre paesi baltici, tutti sovranisti perbene firmatari di un documento di fiera opposizione alle (timide) ipotesi della Commissione di allargare l’ambito di istituti e meccanismi sovranazionali di governo economico dell’Unione monetaria.

Questa è l’Europa di oggi. I cultori del realismo politico, con cui i sovranisti maleducati hanno affinità elettive, sono lieti di vedervi confermata la loro triste dottrina, per cui è inutile ammantare la politica della potenza (ne esiste un’altra?) con pannicelli per anime belle e poco virili. Se non si cambiano le regole del gioco, è difficile, forse sbagliato, sicuramente ipocrita, chiedere a chi guida le nazioni di non stare al gioco che tutti giocano. Naturalmente bisogna saperlo e poterlo fare. Impresa obiettivamente non facile.

Da un lato, occorre riconoscere con franchezza che i sovranisti perbene, in primis i “soggetti indispensabili”, non hanno saputo, o voluto, rispondere alle grandi sfide lanciate dalla crisi con una chiara e decisa strategia di riforma dell’Unione monetaria verso una maggior condivisione di sovranità (formale e sostanziale). E’ proseguita la liturgia del “caso per caso”, dove la Commissione, attraverso l’esegesi dei sacri testi dei parametri, soppesa meriti e peccati di ciascuno, e può somministrare indulgenze posto che non vengano messi in discussione i comandamenti e l’autorità. Il governo Renzi ha giocato questo gioco meglio che ha potuto (meglio anche di chi lo ha preceduto), ma con limitato beneficio per l’Italia e nessuno per la causa europeista. Il summit di giugno a Roma, che doveva gettare le fondamenta della nuova Unione, è stato un fiasco. Si sono incancrenite le ferite sociali, politiche, istituzionali aperte dalla crisi nel corpo europeo. Si è diffusa la convinzione che il perbenismo europeo non paga, cavalcata con facile successo dai sovranisti maleducati.

D’altro canto costoro hanno solo due opzioni. Una è coalizzarsi tra loro con l’unico scopo di smontare il sistema o ridurlo a pochi trattatelli su materie secondarie. L’altra è, ciascun per sé, accrescere la propria influenza nazionale in modo da sedersi al tavolo dove si scrivono, s’interpretano e si applicano le regole. L’attuale governo italiano sembra attratto da questa idea, facendo leva su alcuni asset dell’Italia, la dimensione e capacità economica e finanziaria (“too big to fail“), il potere di veto e ritorsione, il ruolo di paese fondatore dell’Unione. Ma ergersi allo status di potenza, di “soggetto indispensabile”, richiede una strategia di lungo termine, e molti e grandi sacrifici, come insegna la storia delle potenze di tutti i tempi. E l’impresa può fallire tragicamente, come accadde all’Italia fascista. Nell’Europa di oggi la potenza non si misura più in termini bellici, ma in forza dei fattori di soft power ricordati prima, perfettamente incarnati dal paese campione dei sovranisti perbene, la Germania. Nondimeno, rimane vero che mettersi alla pari richiede molto tempo, costanza e sacrifici per acquisire le necessarie doti sociali, culturali, politiche, economiche, istituzionali.

Per dirne una, emersa con forza dalla temperie della crisi, la capacità di essere self-sufficient, “vivere dei propri mezzi e stare in piedi sulle proprie gambe” (C. Bastasin, Saving Europe: Anatomy of a Dream, Washington: Brookings Institution Press, 2015). In termini economici significa esser capaci di creare e mantenere i twin surplus, quello del bilancio pubblico e quello della bilancia con l’estero. Si tratta di una vocazione discutibile, e molto discussa (al di fuori della Germania), ma che, dal punto di vista che stiamo trattando, ha una logica che dovrebbe essere ben chiara ai sovranisti: primo comandamento, non dipendere dallo straniero. Quando Mussolini ruppe le regole del sovranismo del suo tempo andandosi a prendere un pezzo d’Africa orientale per creare l’impero, e l’Italia venne punita con le sanzioni, la sua risposta fu coerente: instaurò il regime autarchico. Vero o retorico che fosse, ne fece un elemento d’identità e orgoglio nazionale a corredo della vocazione imperiale. Risulta perciò bizzarra ab origine l’idea dell’attuale governo italiano di fare i sovranisti coi twin deficit e i debiti da ripagare alle potenze straniere. La presunta manifestazione di potenza mediante la pura e semplice violazione delle regole vigenti è, quasi sempre, un bluff perdente, come sembra confermare l’andamento della trattativa tra governo e Commissione.

Nell’Europa di oggi sovranisti perbene e sovranisti maleducati giustificano a vicenda la propria esistenza, interpretano le due parti secondo la ferrea logica delle strategie non-cooperative che perseguono entrambi. Gli uni cercano di prevalere sugli altri, ma insieme bloccano l’Europa nel suo miserevole status quo. Tutti gli occhi sono puntati sulle elezioni europee della prossima primavera. Spezzeranno questo letale circolo vizioso, e in che direzione? Difficile dirlo, ma non si trovano ragioni di ottimismo se non sorgerà una terza forza alternativa, genuinamente transnazionale ed europeista, con un forte e chiaro programma di discontinuità col passato, radicata in ciascun paese e in grado di far avanzare ciascun paese verso una maggior condivisione di sovranità tra pari ed eguali.

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