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aldogiannuli

Che succede nel Pd? Il partito non c’è più

di Aldo Giannuli

Cito dalla copertina dell’Espresso in edicola:

“Il partito che non c’è (più). Sezioni che chiudono. Militanti in fuga, elettori dispersi. Da Torino a Roma, da Genova a Bologna, viaggio fra le macerie democratiche alla vigilia del congresso”

Direi un affresco, più che un titolo, di crudo ma indiscutibile realismo.  Credo che ogni persona di buon senso abbia la percezione dello squagliamento di un partito che ormai sembra avere più candidati segretari che iscritti.

Elettoralmente, forse (molto forse), resisterà per qualche tempo grazie all’insediamento dei tifosi più anziani, ovviamente senza nessuna prospettiva futura. Il Pd è morto ma gli eredi non vogliono seppellirlo.

Perché è successo questo e chi ne ha la responsabilità? Il Pd è finito perché è fallita la formula del partito riformista interno al sistema neo liberista, questa è la semplice verità, ma loro non se ne sono accorti. Nessuno ha tentato una analisi del perché un partito di massa che aveva il 41% dei voti si è ridotto al 17% in quattro anni, perdendo il 60% dei suoi elettori, come se questo fosse normale.

Nessuna analisi, nessuna autocritica, neppure sulla sciagurata riforma elettorale incredibilmente tentata in perfetta solitudine e clamorosamente sconfitta al referendum: sono gli elettori che si sono sbagliati.

Questo dipende dal fatto che il Pd, dopo una lunga parabola di decadenza inaugurata da Occhetto, è definitivamente diventato un “partito del leader” come gli altri, con l’avventura renziana ed il risultato è che, di fronte alla sconfitta, tutto diventa la ricerca del nuovo “uomo forte” che guiderà la riscossa. Siamo al delirio di Hitler nel Bunker.

Chiunque diventi segretario non potrà fare altro che “portare i libri in tribunale” e concordare il fallimento. In 28 anni i dirigenti del Pds-Ds-Pd hanno dissipato l’eredità del Pci , che nonostante la forte decadenza degli anni ottanta, era ancora cospicua e nella corsa hanno ingoiato i resti del Psi, della sinistra Dc, del Pri e poi di Rifondazione, dei verdi eccetera, per arrivare ad una cifra che Per ora) è più o meno quella che aveva il solo Pds al suo sorgere.

In questa folle corsa verso il nulla, il Pds-Ds-Pd ha prerso tutto: la sua cultura politica, il suo modello organizzativo, il suo seguito sociale, il suo linguaggio soprattutto la sua anima. E’ diventato, nella sua più fulgida stagione, una tristissima copia del peggiore doroteismo.

Di questo hanno certo colpa tutti i suoi dirigenti (dall’ineffabile Occhetto a D’Alema, a Veltroni, a Franceschini, a Fassino, Bersani, a Renzi) questo è chiaro, ma i maggiori responsabili non sono loro. I responsabili peggiori sono da ricercare nella base che gli ha consentito di fare tutto, di svendere tutto, che li ha sempre supportati senza mai chiamarli a rendere conto delle bestialità che producevano a getto continuo. E questo è il vero fallimento del Pci che ha allevato un gregge di pecore fedeli e poco intelligenti, pronte ad assecondare qualsiasi gruppo dirigente.

Questo era sbagliano già ai tempi di Togliatti, di Longo e di Berlinguer, ma aveva due giustificazioni: l’assedio posto dagli altri, sino a metà anni settanta, e la qualità di un gruppo dirigente che, anche quando faceva errori, restava uno stato maggiore di alta qualità. Dopo è venuta la massa degli omuncoli che, da Occhetto in poi, hanno diretto il partito giovandosi della stessa cieca fedeltà degli iscritti. Quel mondo sta finendo, non fosse altro, per ragioni anagrafiche e non lascia alcun rimpianto dietro di sé.

Studino questo caso le nuove formazioni politiche e che si credono al sicuro solo perché si proclamano movimenti e non partiti. Continuando così faranno la stessa fine ma in assai meno tempo.

Comments

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clau
Sunday, 16 December 2018 10:55
Insomma, con lo squagliamento del PD finisce un grande equivoco che durava ormai da oltre 70 anni. Le sue caratteristiche anticomuniste e di partito clerical-borghese, le aveva messe in bellavista già ai tempi della Costituzione e con la “via nazionale al socialismo”. Anche se c’è del vero in quel che sostiene Mario Galati, sull’”intervenuto mutamento della base sociale”, il che significa ulteriore imborghesimento della base sociale piccolo borghese che lo votava, non si può nemmeno dimenticare che una gran massa di proletari al rito elettorale borghese già da svariati decenni non ci credeva più, e infatti, il partito dell’astensione da decenni risultava essere il primo partito. Matteo Renzi fin da subito voleva la rottamazione, bisogna riconoscergli che è stata l’unica sua vera vittoria!
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Mario Galati
Wednesday, 12 December 2018 09:41
Parlare di "iscritti" in modo astratto potrebbe indurre all'errore di non vedere il mutamento della base sociale e di classe del partito: dalla base operaia a quella dei dipendenti pubblici, degli insegnanti, dei ceti medi intellettuali o pseudo tali e, in misura minore, della piccola borghesia produttiva, rappresentata più dal PSI di Craxi e poi da Berlusconi e dalla Lega (da ciò la rivalità col PSI, non dalla difesa dei valori socialisti, del'"onestà" e via discorrendo).
Le cooperative e il sistema giolittiano cui si riferisce Eros Barone sono una parte importante di questa mutazione. Il ricambio nella composizione della base, degli iscritti, ma soprattutto dei quadri e dei dirigenti, è avvenuto massicciamente sotto Berlinguer e con sua responsabilità. Per questo motivo, il culmine dell'ascesa elettorale del PCI (il 36% del 1976) corrispondeva al suo declino; era la sconfitta e non la vittoria.
La fedeltà della base alla dirigenza vi è stata nel PCI perchè la dirigenza esprimeva gli interessi e la volontà della base, non perchè si trattava della macchietta guareschiana del militante stupido col paraocchi. E lo stesso è avvenuto con la base del PDS-DS-PD, solo che gli interessi e i valori erano diversi. Questo spiega perchè la base ha lasciato fare tutto ciò che hanno fatto i dirigenti: non per passività acritica, ma perchè era ciò che esprimeva la sua posizione di classe, che non poteva essere scalfita da qualche pensionato o lavoratore garantito e, ormai, sostanzialmente conservatore.
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Eros Barone
Tuesday, 11 December 2018 21:23
L’inconsistenza del Pd è consistita essenzialmente nell’inconsistenza politica, culturale e ideale di una ‘coalizione’ che pretende di essere un ‘partito’. Il Pd è infatti il sottoprodotto di un lungo processo di socialdemocratizzazione e, successivamente, di ‘liberaldemocratizzazione’ iniziato ben prima del 1992 (di fatto, già con Berlinguer) e giunto infine ad un approdo squisitamente borghese e neocentrista. Esso è anche il frutto dell’incapacità, ampiamente dimostrata dal gruppo dirigente del Pci, di elaborare una strategia realmente alternativa alla società capitalistica e ai suoi valori. Dissoltosi progressivamente il ‘legame di ferro’ con l’Urss, era emersa alla luce del sole, già nel corso degli anni ’80 del secolo scorso, la natura profonda, di cui la strategia della ‘via italiana al socialismo’ elaborata da Togliatti era stata l’espressione idealmente e politicamente più nobile, di un partito parlamentarista, riformista e socialdemocratico, che non durò particolare fatica a liquidare, con il concorso di una maggioranza di due terzi fra i suoi iscritti, quanto (assai poco) rimaneva del marxismo e del comunismo all’interno di un mero involucro formale che celava la duplice subordinazione agli interessi corporativi e neogiolittiani della Lega delle cooperative e ad una politica economica di stampo neoliberista. Gramsci avvertiva che i partiti sono nomenclatura delle classi, rappresentano cioè dei gruppi ristretti che esprimono interessi e volontà di ben precisi settori sociali. Non era difficile, quindi, prevedere quali interessi e quali volontà avrebbero trovato la loro espressione politica in un partito che ha fatto del ripudio del socialismo l’asse della sua identità e del suo programma, assumendo in economia i princìpi del libero mercato, della concorrenza, della privatizzazione, della liberalizzazione, della mobilità e della flessibilità, nonché, nelle istituzioni, il sistema maggioritario, il bipolarismo e la riforma del titolo V della Costituzione. L’unione dei Ds con la Margherita, ossia con gli ex democristiani, costituì pertanto l’esito di un processo carsico di riaggregazione che da tempo aveva visto impegnati i ‘poteri forti’ (ossia i centri del capitale finanziario e industriale) nello sforzo di dare vita e base sociale ad un partito neoborghese, moderato e centrista, che potesse svolgere, sia nel campo della politica interna che in quello della politica estera, un ruolo più organico e più dinamico, nel senso di più rispondente agli interessi di quei poteri, garantendo nel contempo, sul modello della ‘Grande Coalizione’ tedesca e meglio di quanto non sapesse fare, nella stessa direzione, un ‘outsider’ come Berlusconi, la subordinazione al capitalismo e la passività ideologica delle masse lavoratrici e delle nuove generazioni. Sennonché l’appoggio e l’accompagnamento passo passo, che i due maggiori quotidiani delle classi dominanti del nostro paese, il “Corriere della Sera” e la “Repubblica”, hanno assicurato al Pd, al di là di talune divergenze tattiche, non si sono rivelati sufficienti a fermare la deriva di tipo ‘somalo’ che, sconfitta dopo sconfitta, lo sta portando alla progressiva disgregazione.
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