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Altro che imprenditori: il partito del Pil sono gli italiani che lavorano

di Alessandro Robecchi

Prima di tutto una precisazione. I tremila imprenditori che l’altro giorno a Torino si sono riuniti per dire sì alla Tav e a tutto il resto (grandi opere, medie opere, tagli alla manovra) non sono, come si è scritto con toni eccitati e frementi “Il partito del Pil”. Non rappresentano, come si legge in titoli e sommari “due terzi del Pil italiano e l’80 per cento dell’export”. Il Pil italiano, e anche l’export, lo fanno milioni di lavoratori che in quelle imprese sono occupati. Gente che da anni vede assottigliarsi il suo potere d’acquisto, mentre aumentano profitti e rendite, che assiste all’erosione dei suoi propri diritti, che va a lavorare su treni affollati come gironi infernali, che sta in bilico sul baratro della proletarizzazione, che teme ogni giorno un disastro, una delocalizzazione, una vendita ai capitali stranieri, una riduzione degli organici, che combatte ogni giorno con servizi sempre più costosi, che fa la parte sfortunata della forbice che si allarga – da decenni – tra redditi da lavoro e profitti. Il Pil italiano – come il Pil di tutti i paesi del mondo – lo fanno loro, ed è piuttosto incredibile che una platea di tremila persone venga più o meno, con pochissime sfumature, identificata con l’economia italiana senza nemmeno una citazione di sfuggita, un inciso, una parentesi, che ricordi i lavoratori.

A vederla dal lato politico, si direbbe che l’imprenditoria italiana cerchi rappresentanza e punti di riferimento. Come ha detto Maurizio Casasco (piccoli imprenditori), “Abbiamo bisogno di leader, non di segretari di partito”, ma già i primi commenti fanno notare che presto lo troveranno, e sarà ancora Salvini, l’uomo che sa dire sì e che già si era beccato un paio di mesi fa gli elogi sperticati del presidente di Confindustria Boccia.

Così la palla ripassa alla politica, ai 5stelle impantanati e al loro cannibale Salvini cui cedono su tutto (compresa la guerra ai poveri conclamata nel decreto sicurezza). Doppio risultato: si piange un po’, che è caratteristica statutaria degli imprenditori italiani, e si tira il pallone in tribuna, impedendo ancora una volta una riflessione proprio su di loro. Sicuri che quei tremila (80 per cento dell’export, due terzi del Pil) non abbiano colpe in tutto questo? Che non abbia funzionato niente, negli ultimi trent’anni, politica, economia, finanza, Stato, amministrazione, tranne loro, sempre perfetti e “motore dello sviluppo”? E’ un po’ incredibile, andiamo! Eppure negli anni di Silvio gli imprenditori italiani hanno avuto di tutto e di più, e negli anni del centrosinistra meglio ancora, dalla pioggia di miliardi del Jobs act al coltello dalla parte del manico nelle relazioni sindacali, come la possibilità di demansionare i dipendenti, per non dire dell’articolo 18.

Da almeno trent’anni, con piccole frenate e forti accelerazioni, la filosofia al governo sostiene la tesi che aiutando le imprese si aiutino anche i lavoratori, che se stanno bene gli imprenditori staremo bene tutti, che se la tavola è sontuosa, qualche briciola cadrà dal tavolo per i poveri. Questo, in trent’anni di sperimentazione, non si è verificato, anzi è successo il contrario, la precarizzazione è avanzata, fino al cottimo, fino all’algoritmo che gestisce i tempi di vita delle persone.

Gli imprenditori italiani, in definitiva, non strillano solo per la Tav, ma perché non hanno ancora una sponda sicura nel governo del paese. Nessuno che dica “meglio Marchionne dei sindacati”, per intenderci. E’ legittimo lo sconcerto e anche l’accorato appello, che confina col piagnisteo, che confina con le minacce, va bene, si chiama pressione politica. Ma partito del Pil no. Il partito del Pil, qui, sono milioni di italiani (e stranieri) che lavorano, e anche loro a caccia di qualcuno che li rappresenti in un Paese senza sinistra.

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