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Il Carnevale e la rivolta

di Miguel Martinez

Una riflessione su tre rivolte: Il Sessantotto, la Rivolta Araba del 2011, i Gilets Gialli

La mia idea è questa: le tre rivolte si somigliano, perché sono momenti liberatori e carnescialeschi. Ma sono radicalmente diversi, perché il Sessantotto avviene all’apice dell’illusione che “la pacchia è appena cominciata”. Mentre la rivolta araba prima e quella francese dopo, partono dalla constatazione che “la pacchia è finita”.

Il Sessantotto almeno Roma, mi raccontava chi c’era stato, fu una gran festa, cui parteciparono tutti i giovani vivi, a prescindere da considerazioni identitarie o astratte. Poi, mi spiegarono, divenne una faccenda ideologica.

Non so quanto questa ricostruzione corrispondesse ai fatti; ma sto guardando adesso una serie di foto e video delle manifestazioni dei Gilets Jaunes.

Gente che grida «Anti, Anti Anticapitalistes», i preti che benedicono i manifestanti, la bandiera di Casa Pound, gli Antifa mascherati che guidano il corteo, gli striscioni contro gli accordi di Marrakech, le bandiere dei NoTav italiani, i cori di Bella Ciao, una grande bandiera con il faccione di Apo Capo Curdo, le “A” cerchiate anarchiche sui muri, gente con i capelli bianchi e ragazzini, fricchettoni che suonano per strada, i pompieri schierati contro la polizia, le bande di motociclisti…

C’è un elemento di gioioso Carnevale in comune con il Sessantotto, che evidentemente risponde a un profondo bisogno umano.

La rivolta francese è quella di un mondo arrivato al limite, come in genere sono state tutte le grandi rivolte della storia: le rivolte sono quasi per definizione contro la modernità.

Gli europei – non solo i francesi – sono ovunque schiacciati dalla “crisi”: non a caso, a far scattare la rivolta, è stata una piccola misura presa dal governo francese per affrontare la crisi climatica.

Nel 70% dei francesi che sostengono la rivolta, deve essere esploso qualcosa di primordiale, nel vedere l’ineffabile faccia dell’ometto delle banche, Macron che chiedeva a chi fa fatica a tirare avanti, a decrescere al posto suo.

Questo mi ha fatto venire in mente le rivolte arabe del 2011.

Penso all’Egitto. Un paese in cui una minoranza aveva le armi in mano; e avendo le armi, aveva anche tutti gli appalti governativi, le carceri, torturatori di eccelsa professionalità, i media.

Questa minoranza offriva al popolo una generale sicurezza, scolarizzazione di massa, carburanti a prezzi ridotti e il pane a prezzi stracciati.

La scolarizzazione di massa ha creato i Fratelli Musulmani e poi l’Isis.

Le armi, il carburante e il pane (cioè il grano importato dagli Stati Uniti) venivano pagati tutti con un debito inestinguibile.

A un certo punto, i nodi arrivarono al pettine. La popolazione esplose, le risorse interne calarono, i debitori iniziarono a bussare alla porta. E salirono di colpo il prezzo del carburante e del pane.

A questo punto, scoppiò la rivolta.

Che i media da noi chiamarono la “primavera“, ci raccontarono un sacco di storie su come il mondo arabo starebbe “per diventare moderno pure lui”.

C’era probabilmente anche un elemento di buona fede in alcuni, che credevano davvero che il capitalismo ci libererà tutti, basta che ci siano libere elezioni e leggi che difendono la sacralitòà della proprietà.

Comunque da lì partirono le infinite strumentalizzazioni occidentali, alcune delle quali ancora in corso.

In realtà, la rivolta araba fu un collasso, uno dei primi grandi sintomi dell’implosione del mondo. E sicuramente in Egitto, si stava meglio quando si stava peggio.

Il collasso attacca prima la periferia, dove ci sono meno riserve di grasso.

Da qualche anno, anche la grassa Europa inizia a vacillare.

Le rivolte sono imprevedibili.

E’ difficile per me immaginare quale potesse era la crepa nel sistema egiziano: alla periferia, i milioni di piccoli soldati sottopagati per sparare al minimo segno sulla popolazione, una rete impenetrabile di raccomandazioni e di interessi al centro, il conformismo e la paura di tutti, il sistema di spionaggio… Onestamente, mi sembrava che non potesse crollare.

In maniera diversa, il sistema occidentale: la rete di interessi che coinvolge tutti, la capacità dei media di rappresentare le cose come vuole chi comanda, la cultura del prendere-o-lasciare-se-vuoi-mangiare-devi-sostenere-la-crescita-economica, il fatto che siamo tutti dipendenti da qualcuno e da qualcosa, la possibilità offerta dall’elettronica di monitorare la totalità della società.

Eppure devo ammettere che anche da noi, il sistema è più fragile di quanto pensassi, e lo si vede paese dopo paese: le eccezioni sono i paesi, come la Polonia e l’Ungheria, dove l’economia va ancora bene, e sul fronte opposto, la Germania perché è l’ultima potenza storica ancora a reggere.

Ma torniamo al Sessantotto.

La mia ipotesi è che – a parte l’aspetto carnevalesco – il Sessantotto fosse l’esatto contrario della rivolta araba e di quella francese.

Dal blog di Gail Tverberg, ricavo questo grafico. Rappresenta la crescita nel consumo energetico dagli inizi della Rivoluzione Industriale.

14 energy growth rates vary by decade

Noterete che il picco è proprio attorno al 1968. Il consumo energetico continua a crescere, fino ai tempi nostri, solo che questo grafico ci permette di vedere che cala la velocità a cui cresce.

Questo grafico – ma ne potremmo mostrare molti altri – ci fa capire che il Sessantotto doveva essere il punto in cui l’umanità ha potuto illudersi, credendo che la pacchia fosse appena cominciata.

Nel 1967, il sindacalista Luciano Lama disse che il salario era una “variabile indipendente“, un modo complicato di dire che c’era talmente tanta abbondanza per tutti, che gli operai potevano rivendicare qualunque stipendio.

Gli imprenditori ancora lo prendono in giro.

Hanno ragione ovviamente, ma tutto il loro dispositivo si fonda su una premessa ancora peggiore: la menzogna che l’economia stessa sarebbe una “variabile indipendente”.

Penso con orrore oggi alla mia insensibilità allora alla distruzione, l’indifferenza verso i rifiuti, la mia incapacità allora di chiedermi, “ma la busta di plastica che sto usando, da dove viene e che fine fa?” Al massimo, riuscivo a raffigurarmi che fosse un problema per uno spazzino.

Ecco, l’abbondanza immaginata allora era tale, che quando si dava fuoco a un’automobile, magari qualcuno poteva dispiacersi per il proprietario, ma nessuno pensava ai residui dei copertoni che ci entravano dentro i polmoni.

E’ interessante notare che dal Sessantotto, è passato mezzo secolo, ma la visione da “pacchia appena cominciata” è ancora molto forte: le idee cambiano decenni dopo i fatti.

Tra i meriti e le colpe del Sessantotto, ci metterei l’ossessione con le rivolte.

Il fatto che qualcuno sia contro, diventa per certi ambienti un bizzarro motivo per essergli a favore.

In realtà, le rivolte per definizione non portano da nessuna parte: sono solo sintomi di qualcosa.

Possiamo godere del male che fanno ai nostri amici – anch’io a vedere la République in tutta la sua arroganza in crisi ammetto una certa allegria – ma alla fine, se il nostro nemico sta male, il mondo starà davvero meglio?

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