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Media e gilets gialli: come il nuovo fascismo si serve del vecchio

di Sergio Cappello*

Mai come in queste cinque – sei settimane di “crisi” dei Gilet gialli, i media dominanti francesi hanno esercitato il loro ruolo di guardiani dell’ordine stabilito.

L’associazione Acrimed (Azione – Critica – Media) denuncia un trattamento mediatico fondato sull’appiattimento senza riserve dell’informazione sulla comunicazione del governo, sull’intimazione incessante a non manifestare, sulla sovraesposizione delle violenze (ma solo quelle dei manifestanti), sulle ingiunzioni unanimi e unilaterali a condannarle, sulla delegittimazione delle rivendicazioni e di certi rappresentanti della mobilitazione. È la copertura, ormai abbastanza classica dei movimenti sociali di massa, ma con qualcosa di nuovo.

In queste settimane di crisi governativa, in effetti, il panico è subentrato nelle redazioni, dove i soliti noti delle testate giornalistiche e radiotelevisive hanno creduto opportuno assumere tutti i ruoli, da quello di consiglieri in comunicazione del presidente a quello di arbitri della legittimità delle rivendicazioni o addirittura di organizzatori del dialogo sociale. Una tale agitazione nasce probabilmente dal dubbio che sembra aleggiare nelle loro menti: il popolo ignorante, manipolabile a volontà, sarebbe dunque capace di pensare, analizzare e comprendere da solo?

In seno alle numerose e diverse componenti che affluiscono nel movimento dei Gilet gialli, in effetti, si è rapidamente sviluppata attraverso l’esperienza diretta delle lotte una generale diffidenza nei confronti dei media, che si aggiunge a quella già consolidata nei confronti dei “politici”, a conferma del fatto – molto importante in termini di democrazia e di pluralismo – che né gli uni né gli altri riescono più a fabbricare l’opinione. Così, per rispondere alla mancanza di obiettività dei giornalisti, i manifestanti si sono messi a fare controinformazione.

Le immagini non convenzionali che circolano nei social mostrano una brutalità poliziesca inquietante, inversamente proporzionale alla pericolosità dei manifestanti (vediamo i gendarmi spesso paralizzati davanti a gruppi organizzati in azione e invece molto più zelanti nell’umiliare pacifici studenti liceali o addirittura, come si è purtroppo stati costretti a vedere, un portatore di handicap!); i messaggi in diretta dei partecipanti alle mobilitazioni tracciano in tempo reale la carta topografica della privazione sistematica del diritto di manifestare messa in atto dal ministro degli interni.

I Gilet gialli, oltre a denunciare e combattere l’arroganza dei politici e la violenza economica subita quotidianamente dalle classi disagiate, rispondono dunque sul terreno anche al disprezzo mediatico di cui sono oggetto. È un segno della politicizzazione “dal basso” che è in atto nel movimento, fuori dal controllo dei corpi intermedi, e la piattaforma delle rivendicazioni ha progressivamente assunto i contorni sempre più definiti di una contestazione radicale e popolare delle politiche di austerità, contro le privatizzazioni e in difesa del welfare. 

Ciò chiarisce il discorso attuale dei media mainstream, unanimemente mobilitati in sostegno della strategia presidenziale, soprattutto dopo l’attesissimo intervento televisivo preregistrato con cui Macron si è rivolto alla nazione il 10 dicembre, per tentare di trovare una via d’uscita dalla crisi.

Quasi nessuno in TV ha sottolineato la pochezza del discorso presidenziale, che innumerevoli post sulla pagina facebook dei Gilet gialli commentavano invece in tempo reale come tale. Noi purtroppo temiamo che dietro la “com” piuttosto banale cui ci ha abituati Macron (pensare “primavera”!) ci sia dell’altro.

Prima di ogni altra cosa, Macron ha minacciato una dura repressione se il movimento si fosse protratto, ha immancabilmente encomiato le forze dell’ordine, assolvendole, anche preventivamente, da ogni responsabilità in caso di violenze, e ha annunciato condanne esemplari per i “fautori di disordini”. Poi ha cambiato postura e si è fatto più dolce e contrito, per tentare di assicurarsi la pace sociale elargendo un’elemosina di concessioni tanto più roboanti quanto più misere nella sostanza.

Abbiamo assistito, insomma, a uno spot pubblicitario per promuovere l’immagine di un capo di stato inflessibile ma generoso, saldo garante dell’ordine e al tempo stesso empatico con il popolo degno, una volta tanto, della sua commiserazione e che in fondo lo contesta solo perché ignaro degli effetti progressivi delle riforme liberiste che egli, ad ogni modo, continuerà a portare avanti, fino al ritorno della Nazione all’età d’oro, evviva la Repubblica, evviva la Francia. Chi l’ha ascoltato, purtroppo, sa che questa non è una forzatura caricaturale.

Raramente si è visto un presidente “democratico” minacciare così il suo popolo, e infantilizzarlo con altrettanto cinismo. Raramente i commentatori ufficiali hanno insistito con tanta ossessione sulla posa del parlante piuttosto che sulle sue parole, come se i segni ostentatori di contrizione meritassero più attenzione delle “fake news” che di fatto costituiscono la sostanza del suo discorso, a cominciare dalla misura faro, l’aumento del salario minimo, solennemente annunciata come risposta concreta alle rivendicazioni della piazza, e che di fatto, una volta analizzata, si riduce a un vergognoso escamotage contabile.

Macron ha sfacciatamente mentito al popolo francese. Per ottenere l’effetto a uso mediatico, ha annunciato una misura inedita: l’aumento del salario minimo di cento euro mensili netti dal 1° gennaio. Il finanziamento di questa misura subito salutata dai commentatori televisivi come un evento straordinario (cento euro sono tanti! Non si era mai visto prima! Neanche i sindacati…) rivela però che il salario minimo in realtà non aumenta: venti euro circa vengono, infatti, dalla rivalorizzazione legale dell’1,8 per cento, già prevista per il 2019, sia pure con un calendario diverso. I restanti ottanta euro vengono invece dal “Premio d’Attività”, un meccanismo contributivo introdotto dall’attuale governo in sostituzione del precedente Reddito di Solidarietà Attiva, rivalorizzato per l’occasione.

Non è un dettaglio insignificante da sorvolare, come fanno gli analisti televisivi della politica. Il Premio d’Attività, in effetti, si distingue dal salario minimo per il fatto di non essere versato dai datori di lavoro, ma dai contribuenti. Il che vuol dire che i 100 euro in più del salario minimo tanto strombazzati da Macron e dai suoi accoliti non saranno finanziati dai principali beneficiari della fiscalità regressiva che i Gilet gialli contestano, ma dalla stragrande maggioranza dei francesi. Insomma, una misura senza incidenza sul potere d’acquisto delle classi popolari e medie, ma che aggrava l’iniquità della redistribuzione delle ricchezze nel paese.

La stampa unanimista non si è certo attardata sulle analisi, ma sulla simbolica del gesto: il Presidente ha fatto mea culpa e ha inviato un segno di riconciliazione. Poi, di fronte alle critiche del leader della France Insoumise, Jean-Luc Mélenchon, che ha tempestivamente segnalato la truffa, si è arroccata in difesa del Presidente e del suo obiettivo di fare sgonfiare con ogni mezzo la protesta.

I media francesi diffondono oggi un’atmosfera ansiogena nel paese e selezionano accuratamente tanto i portavoce cui concedere il diritto di esprimersi, quanto le rivendicazioni sociali ritenute “legittime” . La loro strategia persegue due principali obiettivi: da un lato, impedire con la paura che il movimento si allarghi, legittimando preventivamente la violenza di stato, che potrebbe abbattersi su chiunque tentasse di aderire; d’altro lato arrestarne la maturazione politica, prima che le rivendicazioni si traducano in proposte ampiamente condivise sulla fiscalità, sulle scelte economiche e sulla democratizzazione delle istituzioni. L’obiettivo degli organi di propaganda è insomma quello di legittimare il governo nel suo tentativo di mettere fine con ogni mezzo al processo di democratizzazione della partecipazione politica in atto nel paese.

Questa strategia fondata sulla paura e sulla selezione del discorso udibile spiega l’importanza che viene concessa dai media ai fascisti che tentano di infiltrare il movimento dei Gilet gialli. Il solo studio sociologico serio pubblicato sull’argomento, basato su un’indagine sul terreno a vasto raggio, ridimensiona, in effetti, tale presenza a percentuali quasi insignificanti, eppure la stampa le dà un risalto tale da farla apparire preponderante.

Perché? La risposta più convincente ce la danno le ultime elezioni presidenziali, che hanno visto i media agitare lo spauracchio fascista della Le Pen solo fra i due turni dello scrutinio, e non prima, quando il Front National poteva ancora sottrarre una parte dell’elettorato popolare alla France Insoumise di Mélenchon, in quel frangente in forte crescita nei sondaggi.

Prima del secondo turno delle presidenziali, e già da lungo tempo, il trattamento mediatico ansiogeno del tema dell’immigrazione, rigorosamente associato a quello della sicurezza, aveva permesso all’estrema destra di prosperare su un vuoto preoccupante d’informazioni obiettive e di analisi documentate.

Dopo il primo turno però, quando lo spauracchio fascista poteva trasformare il risicato vantaggio del candidato Macron in un plebiscito, riecco apparire la “peste bruna”. Sdoganare i fascisti quando serve per poi agitarne lo spettro, in caso di confronto diretto, è stata finora una strategia vincente in Francia, fin dall’elezione di Chirac del 2002.

La lezione dell’Italia contemporanea non sembra allertare le coscienze dei guru della comunicazione sui rischi che s’incorrono a voler giocare col fuoco. Anzi, al contrario, sembra anch’essa utile per gettare altra carne sul fuoco, ed ecco apparire sui media francesi improbabili paragoni tra i pentaleghisti di Salvini e di Maio e i Gilet gialli, e non importa se fra questi ultimi, a discapito di chi vorrebbe crederlo, la xenofobia e il razzismo non hanno mai attecchito, o se una misura emblematica del populismo di destra – come la flat tax – viene assimilata alle altre forme di fiscalità iniqua da combattere. In fondo per diffondere fake news, se non si coprono alte cariche istituzionali, basta autoproclamarsi esperti in politologia e passare con frequenza alla TV.

In questo clima di dittatura strisciante – che avanza a colpi di disinformazione propagandistica, violenza sociale e brutalità poliziesca – le parole del grande aedo del presidente Macron, l’ipermediatico Bernard Henry Levy, appaiono rivelatrici del pensiero profondamente antidemocratico che sostiene le pratiche ultrarepressive promosse dal governo francese a difesa dell’ordine neoliberista:

«Che Macron parli o non parli, che si sia d’accordo o in disaccordo con lui, che si sia a favore o contro le sue riforme, non ha, in questo momento, nessuna importanza. Di fronte all’ascesa dei fascisti, dei faziosi e dei nemici della Repubblica una sola scelta è degna: sostegno al presidente Macron»

Ecco come i nuovi fascisti si servono dei vecchi (e li rimettono in carreggiata) in queste importantissime settimane di lotta e di risveglio democratico del popolo francese.


* Potere al Popolo! Parigi
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