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Bolton e Pompeo contro Trump

di Piccole Note

La pressione su Trump per farlo recedere dal ritiro delle truppe americane in Siria sta raggiungendo il parossismo.

 

Il tour di Bolton

Il consigliere per la sicurezza militare John Bolton, che si muove come fosse il vero presidente degli Stati Uniti, ha affermato che il ritiro avverrà solo a due condizioni: la sconfitta completa dello Stato islamico, per evitare che torni a minacciare il mondo, e a patto che vi sia la garanzia che i turchi non massacreranno i curdi siriani.

Date tali condizioni, non esisterebbe una tempistica precisa del ritiro, che comunque non riguarderebbe la cruciale base di al Tanf, posta al confine tra Giordania e Israele.

Un chiarimento che invece di chiarire appare teso a seppellire le possibilità di dare un seguito concreto all’ordine presidenziale. Peraltro Bolton ha iniziato un tour in Medio oriente, primo scalo Tel Aviv, nel quale sta diffondendo il suo nuovo verbo.

E per regalare a Netanyahu il Golan, che il premier israeliano reclama da tempo come area “vitale” per la sicurezza di Israele.

I due vi si recheranno in visita congiunta. Sarebbe un regalo perfetto per Netanyahu, anche al di là degli sviluppi del ritiro Usa dalla Siria, del quale potrebbe rappresentare un lauto compenso.

Ma l’avvantaggerebbe soprattutto sui suoi nemici interni, sempre più forti (anche perché rischia un’incriminazione fatale da parte della magistratura). Molto utile, peraltro, in prospettiva delle elezioni che si terranno ad aprile prossimo.

 

Il tour di Pompeo

In parallelo a Bolton, anche Mike Pompeo, da tempo costretto a inseguire e avallare gli strappi del Consigliere per la sicurezza nazionale, si è precipitato in Medio oriente, dove visiterà otto Paesi arabi

Scopo del viaggio è quello di rassicurare gli alleati di Washington sul fatto che “non c’è alcun cambiamento” della linea americana e che gli Stati Uniti, anche se andranno via dalla Siria, “non stanno abbandonando” la regione.

Un modo per impedire che il venir meno del punto di riferimento americano suoni come un segnale di libera uscita per i Paesi arabi.

I quali potrebbero a questo punto superare i ristretti limiti nei quali sono stati confinati finora dalle linee guida della politica estera americana, con particolare riguardo alla contrapposizione tra sunniti e sciiti, che vede l’Iran stabilmente nella lista dei cattivi, come ribadito in questi giorni dallo stesso Pompeo.

Dichiarazioni, quelle del Segretario di Stato, che sminuiscono le recenti affermazioni del Presidente, che alcuni giorni fa aveva affermato che l’Iran stava cambiando e che si stava ritirando dalla Siria, smussandone l’immagine di gangster globale che la diplomazia Usa gli ha cucito addosso negli ultimi due anni.

Detto questo, anche Pompeo ha dichiarato che il calendario del ritiro siriano è ancora indefinito. E più la scadenza resta vaga più la possibilità che l’ordine di Trump diventi concreto si fa aleatoria.

 

Il colpo di Stato neocon

In termini tecnici, quel che sta accadendo non è tanto una controversia politica, quanto una vera e propria insubordinazione dei neocon, e dei loro alleati, al comandante in capo delle Forze armate americane.

Se si tiene a mente che dopo gli attentati dell’11 settembre tale ambito occupò tutti i posti chiave dell’amministrazione americana (un vero e proprio colpo di Stato), si può ritenere quanto accade oggi un nuovo colpo di mano, teso a sottrarre al presidente degli Stati Uniti il potere di dettare la politica estera.

Ciò dà la misura dell’ironia sottesa a tanta propaganda Usa sul ruolo guida che le spetterebbe a riguardo dei Paesi liberi e sulle varie campagne militari tese a riportare la luce della libertà nelle tenebre delle dittature.

Ma al di là dell’umorismo del caso, va detto che Trump, pur evitando di andare allo scontro aperto con i neocon, sembra intenzionato a tirare dritto.

Come indicano anche le dichiarazioni rese ieri da Mick Mulvaney, il capo dello staff della Casa Bianca, che ha difeso pubblicamente quanto suggerito “da lui e altri” al presidente, in opposizione a Bolton e ai suoi.

Ne riferisce il Washington Post di oggi: il fatto che Trump “prenda una decisione che può differire da quanto suggerito dai suoi consiglieri non significa che sta ricevendo informazioni sbagliate”, ha detto Mulvaney alla CNN. “Significa che si basa su informazioni diverse da quelle che i suoi consiglieri gli stanno fornendo”.

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