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senso comune

La disobbedienza populista

di Aristoteles

L’accusa di “populismo“, in questo nostro inizio di millennio, sembra destinata a rimbalzare da un media all’altro, dalle prime pagine dei giornali alle copertine dei tg.

Populismo è oramai una parola buona per tutte le stagioni, utile a definire spregiativamente una serie di movimenti tendenzialmente “anti-sistema”, che si richiamano ad un “popolo” contrapposto alle élite. Per dirla con Alberto Bagnai, «è il termine con il quale certi sinistri intellettuali etichettano qualsiasi circostanza nella quale il popolo non fa ciò che loro hanno deciso che faccia».

Così come alle élite socio-economiche non interessa definire meglio ciò che è populista, bensì agitarne lo spauracchio, allo stesso modo a noi preme ora – anziché analizzarne la semantica – dare una lettura del populismo alla luce dell’uso che di questo “insulto” fanno i tutori dell’ordine simbolico.

La nostra tesi è che accusare di populismo serva a dare una patina di illegittimità e pericolosità a determinate tesi, per bloccarne la discussione sul nascere. Noi riteniamo, invece, che quello che viene additato come populismo sia innanzitutto una reazione alle difficoltà: una reazione legittima ad un disagio reale.

A questo proposito, secondo voi chi ha detto: «in greco xenofobia vuol dire paura dello straniero, mentre viene usato nel dibattito pubblico come razzista. La paura dello straniero è un sentimento più meno razionale, ma del tutto legittimo. Nessuno deve vergognarsi di aver paura di qualcosa».

Un aggressivo leghista? Un esaltato pentastellato? Un destroide populista?

La citazione è di Luca Ricolfi, che ha un cursus honorum, per così dire, di tutto rispetto: sociologo all’Università di Torino, editorialista di importanti testate (La Stampa, Il Sole 24 Ore, Messaggero), “organico” ad una certa sinistra borghese e illuminata. Un autore non sospetto di complottismo, facilmente riconducibile all’élite (perlomeno accademica).

Qui brevemente “cannibalizzeremo” alcune sue conclusioni, contenute nel suo ultimo libro. Lo faremo perché la riflessione di Ricolfi è paradigmatica: è un tentativo di critica dall’interno del sistema, che coglie le istanze populiste (o popolari?) e cerca di capirle, piuttosto che giudicarle.

Ma soprattutto, è la storia di un ripensamento. Dice Ricolfi: «L’idea, a cui io stesso mi sentivo vicino, era che l’eguaglianza potesse essere garantita dal mercato: cioè un mercato funzionante, con alte dosi di meritocrazia, avrebbe potuto promuovere una maggiore uguaglianza. Non era folle come progetto. Ma è fallito».

Forse la sinistra dovrebbe rendersi conto che, se non folle, era un progetto quantomeno bislacco e contraddittorio; ma quello che ci interessa è sottolineare come questo insigne studioso bacchetti la propria parte politica per un motivo semplice: avere dimenticato quelli che sono i problemi reali degli “ultimi”.

Nel 1989, con la caduta al muro di Berlino, in tutto l’Occidente la sinistra si converte al mercato: spiazzata dal successo del capitalismo, si abbevera delle leggi del mercato e se ne innamora, diventa politicamente corretta e non riesce più a comprendere i bisogni popolari.

Inizia così ad occuparsi sempre più (per non dire esclusivamente) di questioni che non interessano i ceti popolari: non parla più della distribuzione del reddito tra profitti e salari, dell’inflazione, o di come aumentare gli investimenti, ma inizia a parlare di eutanasia, d’indulto, di ambiente. Una serie di tematiche che – per quanto importanti – non spostano un euro e non costano, che non costringono a muovere risorse da un settore all’altro (o da una classe all’altra), ma soprattutto che interessano quasi esclusivamente il ceto medio.

A chi vive in una periferia degradata – dice Ricolfi – non importa molto dei matrimoni gay: gli importa della disoccupazione, del degrado, della criminalità, dei pericoli per strada, delle buche, delle code alla ASL… sono questi i problemi che interessano le persone in difficoltà. Ma di questa gente la sinistra non si occupa più. La sinistra oramai guarda e si rivolge esclusivamente ai “garantiti”.

È proprio nel momento in cui si è persa la capacità di entrare in sintonia col popolo, che si inizia a temerlo accusandolo di populismo. Come scrive Ricolfi (e non solo lui) la domanda populista è domanda di protezione, essenzialmente da due rischi: difficoltà economiche e immigrazione. Le prime sono il diretto risultato, voluto o incosciente, delle politiche che le classi dirigenti hanno scelto di perseguire per il loro irrazionale interesse di arricchimento. La seconda mostra tutti i limiti e le incapacità di gestire il fenomeno da parte di una élite buonista o dalle ricette semplicistiche.

La vera chiave di volta sarebbe capire come il sistema gestirà questo sovraccarico di ansie, paure, rabbie. Un indizio per formulare un’ipotesi è rilevare che “populismo”, ai nostri giorni, rimane un insulto “politicamente corretto” che corrisponde a un interdetto: un vero e proprio tabù escludente dal dibattito politico, che al pari degli altri tabù politicamente corretti, impedisce la riflessione critica e stronca sul nascere qualsiasi pensiero alternativo.

Le élite tuttavia hanno fatto i conti senza l’oste…dell’irrazionalità umana, dell’istinto collettivo di sopravvivenza che sembra indirizzare le popolazioni chiamate al voto. E allora accade l’imprevedibile: Brexit, o Trump, o Di Maio-Salvini. Non più e non solo l’astensione come protesta.

Vengono ricercate vie d’uscita dalla crisi del tutto dubbie, ma frutto di proteste comprensibili più o meno razionalizzate, non di ossessioni dementi. Come un animale stretto all’angolo, il “popolo” (classi popolari, ma anche buona parte del ceto medio) reagisce in maniera naturale. Le scienze mediche chiamerebbero tali risposte “reazione attacco-fuga“. Noi lo chiamiamo istinto di sopravvivenza al disastro imminente.

Se questo fenomeno di “disobbedienza populista” del popolo alle élite si ripeterà ancora, bisognerà riflettere su come agisce e si attiva questo istinto collettivo, che spinge le masse a fare esattamente il contrario rispetto a ciò che l’establishment suggerisce. E si dovrà capire quali risposte potrebbe dare questo establishment minacciato.

I risultati potrebbero essere conflittuali e, per così dire, “pirotecnici“. Il rito della democrazia a suffragio universale comincerebbe a rappresentare un serio pericolo, non più un sicuro sostegno, per il potere costituito. E a quel punto il potere potrebbe decidere di gettare la maschera liberale archiviando l’assetto democratico, fino a quel momento sua bandiera di libertà e di rispetto del consenso popolare, per preservarsi a qualsiasi costo.

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