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controanalisi

Baglioni il buono e il popolo cattivo

di Francesco Erspamer

Si dice che la regina Maria Antonietta, quando finalmente anche a Versailles si accorsero che il popolo era davvero incazzato, si domandasse stupita perché mai, visto che non c’era pane, non mangiassero brioche. Anche suo marito, Luigi XVI, fu profondamente sorpreso dalla rivoluzione, anzi indignato dalla irriconoscenza dei francesi. Così Claudio Baglioni, il ricco, bello, famoso Baglioni, che in vita sua gli sono andate tutte bene e proprio non lo capisce che a quelle condizioni è facile essere buoni e buonisti e anche cosmopoliti: e allora siccome il popolo non è spensierato e generoso e multiculturalista come lo vorrebbe lui, invece di domandarsi quali siano le responsabilità sue e della casta che ha dominato per trent’anni (magari ha sbagliato a imporre le privatizzazioni e la globalizzazione? a celebrare l’individualismo e la superficialità? a promuovere un consumismo compulsivo, il culto del successo e delle celebrity, la deregulation morale e culturale?), invece insomma di fare autocritica o (più in linea con il personaggio) un esame di coscienza, si amareggia e accusa il paese di essere (testuale, Corriere della Sera, 9 gennaio 2019) “disarmonico, confuso, cieco”, peggio, “incattivito e rancoroso”. Chi non è d’accordo, insomma, non solo è fascista e razzista: è proprio cattivo.

Ma qualcuno si faceva illusioni sulle posizioni ideologiche di Baglioni? Quello che nel 1972, mentre uscivano Non al denaro non all’amore né al cielo di Fabrizio De André, Radici di Francesco Guccini, Storia di un minuto della PFM e i primi due album del Banco del Mutuo Soccorso, divenne celebre con Questo piccolo grande amore (un ossimoro di moda dopo il successo del film Piccolo grande uomo), per la gioia dei democristiani di tutte le età, che per un attimo si erano fatti spaventare dalle velleità rivoluzionarie e trasgressive dei giovani e dal loro bisogno di impegno ma che finalmente si accorsero di quanto fosse facile addomesticarli (i giovani) e commercializzarle (le velleità rivoluzionarie): bastava cantare i buoni sentimenti ma con i capelli lunghi e la chitarra. [Sull’argomento, anche se dedicato alla controcultura americana, consiglio il libro di Thomas Frank, The Conquest of Cool: Business Culture, Counterculture, and the Rise of Hip Consumerism.]

Quel disco rappresentò l’inizio del riflusso verso il privato, che per un po’ sembrò significare interiorità personale mentre voleva dire liberismo economico e deregulation culturale e sociale. Ve lo ricordate come si apriva? Con una manifestazione studentesca, apertamente ridotta (la canzone è brevissima) a occasione per iniziare un’avventura sentimentale: “Piazza Del Popolo, / noi cantavamo / ed eravamo una sola cosa. / Poi tutt’a un tratto, / gente che piange / gente che spinge, / gente che va in terra. / Mi trovo a correre / come un dannato, / non ho più fiato / non so dove andare, / no so dove andare, / non so dove andare…”. Ma Baglioni sapeva benissimo dove andare: lontano dallo spazio collettivo della piazza, lontano dal popolo, da quelle esperienze egualitarie e partecipative. Mi pare significativo che per definire i ragazzi con cui sino a un momento prima si sentiva “una cosa sola” si serva di una parola fredda come “gente”; con la quale in una canzone del 1966, in un clima molto diverso, Paolo Pietrangeli aveva indicato i borghesi: “voi gente per bene che pace cercate, / la pace per far quello che voi volete”. Parlo di Contessa, con quel trascinante invito all’azione: “Compagni dai campi e dalle officine / … / scendete giù in piazza”. In Baglioni i compagni diventano gente e la piazza non è più il luogo della solidarietà, della rivolta, del riscatto bensì quello in cui ci si spinge, si cade, si diventa dei “dannati”, quello da cui si fugge in cerca della libertà, esplicitamente intesa in senso individualistico, la “mia” libertà celebrata nella canzone-manifesto con quel titolo e che consente “le pazze corse in moto”, “la prima sigaretta”, “le prime corna”.

“Sono sempre stato a sinistra”, dichiarò qualche anno fa (Corriere della Sera, 22 maggio 2011), “anche se non ero comunista, tantomeno maoista, ma riformista; apprezzavo Pannella”. Un perfetto veltroniano (“lo conosco da quando aveva 16 anni”), un renziano ante litteram (ovvio che Renzi sia un suo fan), un progressista liberal all’americana: insomma, la sinistra agiata, soddisfatta di sé, serenamente liberista e cosmopolita, la sinistra che ama sentirsi buona, illuminata e politicamente corretta, lontana dalle volgarità, dai pregiudizi e dal provincialismo del popolo. Chiusa nella sua Versailles, nelle ville e negli attici del privilegio, fa finta di restare umana perché non le costa proprio nulla e perché la sua definizione di umanità rispecchia esattamente i suoi valori, i valori che l’hanno resa vincente; e coloro che non li condividono hanno torto; fossero pure in maggioranza (roba da populisti dare ascolto alla maggioranza) sono confusi e ciechi, anzi incattiviti e rancorosi, che roba contessa.

Comments

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0
massimo
Thursday, 17 January 2019 12:21
BELLISSIMO
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