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Una cassetta degli attrezzi per il postmoderno

di Giacomo Pisani

L’avvento dei media e della comunicazione generalizzata ha segnato uno spartiacque decisivo nell’ambito della riflessione filosofica e della teoria sociale contemporanee, soprattutto a partire dalla fine degli anni ’70. Sin da subito è stato evidente il fatto che fosse in atto uno sconvolgimento radicale delle strutture ereditare dalla modernità: dalla comunicazione alle istituzioni sovrane, dalle forme di relazione ai modelli di produzione e di lavoro, nulla sembrava essere escluso da questo movimento vorticoso, tutto in divenire e quindi dagli esiti difficilmente anticipabili.

Gli atteggiamenti filosofici, rispetto a tali sconvolgimenti, hanno spesso oscillato – e in parte continuano a farlo – fra un accoglimento entusiastico dei mutamenti in atto ad un rifiuto categorico dei processi che stavano turbando l’ordine “moderno”, verso il quale molti hanno subito diretto il proprio sguardo nostalgico.

Il “postmodernismo” – etichetta in realtà assai generica e imprecisa, essendo stata utilizzata per comprendere teorie e pensatori anche molto distanti fra loro – può essere fatto rientrare, almeno nella prima fase del suo sviluppo, nella prima prospettiva. Non ci addentreremo qui, per ragioni di spazio, nell’analisi di posizioni specifiche o di alcuni autori in particolare.

Ci preme offrire alcuni spunti per il dibattito, che potranno poi essere approfonditi ulteriormente, risalendo anche alla genesi delle posizioni che qui vengono semplicemente abbozzate. In generale, uno degli atteggiamenti rispetto alla crisi della modernità è stato quello di celebrare la fine delle grandi narrazioni, che segnavano i “canoni” del potere e della verità. Questi due concetti, a ben guardare, sono assolutamente correlati, entro una lettura relativistica e – potremmo dire, forzando almeno in parte il linguaggio “postmodernista” – della realtà.

Quest’ultima, infatti, non è un dato assoluto, immune al soggetto che la comprende: piuttosto, essa è costitutivamente in relazione al soggetto, che, intanto, non è più inteso come il soggetto trascendentale della modernità, poggiante sulle categorie “a priori” della conoscenza kantiane e sulla visione “progressista” della storia di stampo illuminista. È un soggetto totalmente esposto all’ambito storico in cui si è formato, che segna la sua stessa apertura al mondo, legandolo costitutivamente agli altri e ad un orizzonte costituito da categorie, significati, linguaggi etc. La società della comunicazione generalizzata avrebbe finalmente favorito l’assunzione, da parte dei soggetti, di questa propria intima “essenza” (tutt’altro rispetto all’essenza del naturalismo), permettendo una decostruzione di quelle strutture di potere che segnavano posti, mansioni, visioni della “verità”, e rimettendo in tal modo i soggetti in gioco nella partita col reale.

Sul versante opposto, l’atteggiamento è stato quello del rifiuto e del rifugio nella glorificazione della modernità. I nuovi media, entro questa visione, segnano l’emersione dell’individualità sganciata da qualsiasi dimensione collettiva, facile preda, quindi, dell’egemonia del mercato. E’ qui che avviene la crisi della sfera pubblica, che aveva segnato un argine al mercato, dando alla concertazione e alla politica una dimensione di decisione e di progettazione della realtà. Restano, oggi, gli appetiti indotti, il consumo come unica matrice di significazione, al di là di qualsiasi orizzonte comunitario, eroso sia nell’identità che nelle istituzioni che segnavano lo spazio della decisione politica.

È forse necessario, nel dibattito che si va aprendo grazie a Filosofia in Movimento, sfuggire allo scontro fra tifoserie, e interrogare la complessità dei fenomeni in atto, che probabilmente intersecano i caratteri colti dalle due visioni che abbiamo descritto, pur in maniera così frettolosa e stilizzata.

La sovranità ha effettivamente costituito, soprattutto nel Novecento, un argine all’espansione del mercato, pur entro un quadro sociale e normativo segnato dalla preminenza della proprietà privata, che determinava una asimmetria strutturale fra capitale e lavoro. D’altro canto, tale frizione rispetto al mercato (che ha trovato il proprio culmine nello sviluppo dello stato sociale, delle garanzie costituzionali etc.) ha sempre poggiato su una concezione piramidale della sovranità, per cui la società è organizzata dal “Politico”, senza la possibilità di partecipare ad una gestione collettiva e “diretta” del bene comune, che avvenisse al di là, dunque, delle forme di rappresentanza ereditate dalla modernità. Anche il lavoro, in questo quadro, ha continuato ad essere determinato “a priori”, senza la possibilità, da parte del soggetto, di auto-determinarsi al di là delle condizioni imposte dal capitale entro il processo di negoziazione con la sfera pubblica.

A partire dagli anni ’70, effettivamente, la crisi delle forme classiche della rappresentanza, associabile agli sconvolgimenti epocali che hanno interessato la società – dalle forme di produzione a quelle di comunicazione – segna l’emersione della singolarità, al di là di quelle strutture istituzionali che avevano innervato la modernità. Ciò è avvenuto, però, al di là di una decisione consapevole da parte dei soggetti, che, piuttosto, sono stati risucchiati entro le possibilità segnate dal neoliberismo, che ha approfondito l’espropriazione della decisione soggettiva.

C’è forse, a questo punto, la necessità di interrogarsi su un nuovo immaginario istituente che, entro uno scenario sociale e produttivo radicalmente cambiato, favorisca la presa di parola da parte dei soggetti, oltre la sintassi del mercato. Questo, però, non significa replicare i modelli del passato, rimpiangendo lo spirito perduto della comunità: nel presente c’è la possibilità di costruire un altro futuro, che non sia prefigurato entro la testa del sovrano, ma che sia l’espressione dei desideri, dei progetti e delle decisioni di tutti. Ma per fare questo è necessario approfondire il carattere “dialettico” della realtà, coglierne le contraddizioni, afferrare le ambivalenze del mercato e morderlo sul terreno ad esso complanare, ovvero quello globale. È fondamentale, insomma, mettere appunto una cassetta degli attrezzi, che non sia espressione dell’intelligenza illuminata del sovrano, ma che costituisca il patrimonio condiviso di un’intelligenza collettiva che va costruendosi attraverso il confronto, l’apertura alle differenze, l’allargamento dei propri orizzonti di senso. È forse questa la sfida di fronte a cui ci pone il dibattito qui aperto da Filosofia in Movimento.

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