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Il caso Cesare Battisti e quello che accade in Italia oggi

di Federico Sardo

Dopo l’arresto di Cesare Battisti si sono levate da tutte le parti parole di giubilo per la fine della latitanza di quello che, forse suo malgrado, era diventato ormai un simbolo vivente della stagione della lotta armata, pur senza averne davvero la caratura.

Battisti era infatti un membro (mai stato il capo) dei PAC, Proletari Armati per il Comunismo, una formazione tra le decine appartenenti alla lotta armata in Italia che non spiccava certo per le sue formulazioni politiche, più vicina alla delinquenza comune che ai proclami e alle teorizzazioni di altri gruppi, attiva soprattutto negli espropri proletari e nella lotta contro le istituzioni carcerarie, e diventata famosa principalmente per il numero di omicidi compiuti (cinque, un numero molto lontano dagli ottantasei delle Brigate Rosse, ma comunque sufficiente a renderla il terzo gruppo armato di quella stagione per numero di attentati).

A contribuire alla loro fama è stata anche la celeberrima foto di Giuseppe Memeo che punta la pistola contro la polizia durante gli scontri del 14 maggio 1977 in via De Amicis.

La latitanza di Cesare Battisti però non ha fatto che renderlo molto più importante di quanto non fosse mai stato, come se dovesse portare sulle spalle tutto il peso degli anni di piombo.

Una narrazione perfetta quella del terrorista scappato a fare la bella vita (in Francia faceva il portinaio, in Brasile è impiegato in un sindacato e vive all’estrema periferia di San Paolo), difeso dagli intellettuali di sinistra (principalmente per via di un processo molto discutibile), con la complicità dei governi stranieri che non concedono l’estradizione (sia in Francia che in Brasile gli è stato concesso l’asilo politico per via dei numerosi dubbi sulle modalità del processo fatto in Italia), lasciandosi dietro una scia di sangue.

La malafede di come i media italiani hanno trattato il caso Battisti è dimostrata per esempio dalle continue interviste al figlio del gioielliere Torreggiani, interpellato ogni volta che viene nominato Battisti. Se è vero che la sua è sicuramente una storia triste e tragica, è anche provato e riconosciuto dalle sentenze che ad averlo ferito e reso disabile sono stati i colpi sparati dal padre durante lo scontro a fuoco con una formazione dei PAC della quale Cesare Battisti non faceva parte, trovandosi quel giorno in provincia di Venezia per l’omicidio Sabbadin (anche questo non compiuto materialmente da Battisti, che faceva parte della copertura armata).

Oggi, mentre le autorità brasiliane e italiane fanno la gara nell’attribuirsi i meriti di questo arresto (quando la cattura è stata compiuta in Bolivia), accodandosi a questo tipo di narrazione tutta la sinistra istituzionale anziché rabbrividire di fronte al fatto che un arresto venga presentato come “regalo personale” da parte del figlio di Bolsonaro a Matteo Salvini, esulta per l’estradizione verso l’Italia, quarant’anni dopo i fatti, di una delle tante persone che hanno partecipato tangenzialmente (o in veste non più che da comprimario) alla lotta armata in Italia.

Chi da sinistra festeggia pubblicamente questo arresto, peraltro, ne ricava soltanto commenti del tipo “ma come? sono i vostri amici, merde” o “non è certo stato arrestato grazie a voi che lo avete sempre difeso”, a riprova del fatto che quando la sinistra prova a fare la destra la gente preferisce sempre l’originale.

Ed è in questo clima che viene letteralmente ricoperto di insulti Christian Raimo, reo di avere detto nient’altro che una cosa di cui a sinistra (ma pure tra i Radicali) si discute tranquillamente da secoli – citando peraltro un noto terrorista come il senatore, presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani e docente universitario Luigi Manconi – e cioè di essere contrario all’ergastolo e idealmente contrario al carcere.

Senza stare a scomodare Foucault, senza parlare di ridiscutere i concetti di autorità, repressione, controllo, disciplina e punizione (che non sembrano idee molto in voga in questo momento), perlomeno Cesare Beccaria e la funzione rieducativa della pena una volta sembravano essere territorio comune, almeno a sinistra.

Alla base del diritto e del concetto di giustizia, da circa trecento anni, stanno la tutela della cosa pubblica e la salute dello Stato, non la volontà di compensare le vittime. Quella è un’altra cosa, si chiama vendetta.

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