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jacobin

Le nuove mostrine

di Giuliano Santoro

L'ossessione per "i comunisti", le pistole facili e le manette. Tre simboli per una classe politica che si aggrappa ad un arresto per nascondere le sue debolezze

Chissà se Dino Risi avrebbe trovato un modo analogo per rappresentare i nuovi potenti, il loro essere spietati e deboli allo stesso tempo, ridicoli e disperanti in eguale misura. La scena si svolge su di una pista di atterraggio. Il Mostro torna in Patria tra ali di telecamere, ministri con facce contrite a godersi lo spettacolo, spettatori con la bava alla bocca. Così si conclude la storia della caccia all’uomo durata quarant’anni. Così è sbarcato sul suolo italico lo spettro che da anni incombe sulle cronache, il volto che rappresenta il rimosso e il perturbante degli anni Settanta e della loro rappresentazione caricaturale.

La politica, praticamente tutta, ha scelto di gettarsi su questa figura minore dei cosiddetti anni di piombo, uno di quelli che si è mosso tra le pieghe dei fatti di cronaca al crepuscolo di quel periodo storico. I governanti sgomitano per un posto in prima fila, davanti alle telecamere. Il ministro con le mostrine della polizia si è piazzato ai margini della pista d’atterraggio e ha atteso che il Criminale scendesse dalla scaletta dell’aereo. «È un assassino comunista», aveva detto poche ore dopo la notizia della cattura, poggiando l’accento sulla seconda parola.

Poi aveva precisato: «Dovrà marcire in galera». Il goffo presenzialismo dell’altro ministro, quello alla giustizia, è emblematico. Lui, esponente della formazione politica che sul giustizialismo e sul populismo penale ha fatto la sua fortuna, si trova a inseguire quell’altro, quello che adesso promette il pugno di ferro e saluta i nuovi rapporti internazionali, che hanno consentito di tornare a casa col bottino. Tutto intorno titoli di giornale, fiumi di immagini e prese di posizione rafforzano la rappresentazione dominante, col consueto, disarmante, mix di servilismo sciocco e pigrizia mentale. Qualcuno non si fa sfuggire il ghigno di sfida del catturato. Altri evidenziano l’insolenza della primula rossa vezzeggiata dagli intellettuali. Il Tg1 dell’ora di pranzo si lascia andare ad un avvertimento tragicomico: «è ancora pericoloso», dice con tono grave il cronista mentre il Terrorista attempato e stanco trascina i piedi sull’asfalto che lo conduce alle camionette.

Che paese è quello in cui praticamente l’intera classe politica e la stragrande maggioranza del mondo dell’informazione e della cultura si aggrappa a crimini commessi da un singolo individuo ormai quarant’anni fa per legittimarsi di fronte all’elettorato? Questa è la domanda che scaturisce di fronte al grand guignol scatenato dall’alba di domenica 13 gennaio, quando le agenzie hanno battuto la notizia della cattura di Cesare Battisti. È un paese che per l’ennesima volta si affida al paradigma vittimario descritto dal punto di vista storico da Giovanni De Luna e da quello filosofico da Daniele Giglioli. Si prendono le vittime di un fatto tragico, se ne assolutizza la voce fino a manipolarla, fino a farne un feticcio che non si può mettere in discussione e che al tempo stesso conferisce un potere assoluto a chi di quella ricostruzione si fa portavoce e ambasciatore. Le vittime, il loro dolore e la loro incapacità di sottrarsi al tritacarne dei giochi spettacolari, sono vittime per due volte. Il passato non diventerà mai storia, non riusciremo a ricostruire e contestualizzare quello che è successo perché serve che le cerimonie prendano il posto delle analisi, che la fabbricazione seriale di simboli ad alto tasso emotivo occupi lo spazio della produzione di senso.

E allora proviamo ad elencarli e decodificarli, i simboli che i nuovi potenti evocano e manipolano. Per primi, inaspettati e quasi dimenticati, ci sono i comunisti. Sono “comunisti” (ça va sans dire: li dipingono stravaccati in qualche salotto chic in cerca di eccitazioni radical) quelli che in questi anni hanno difeso l’Animale. È “comunista” quest’ultimo, accusato di avere portato alle estreme conseguenze l’odio di classe colpendo ignari cittadini. Avviene in un paese che ha appena capitolato di fronte alle richieste dell’Europa dopo mesi di propaganda sovranista e che può soltanto rifugiarsi nel consenso facile della gogna. Succede in un paese che in questi ultimi anni ha visto un’escalation di aggressioni fasciste e razziste. La violenza politica proviene da tutt’altra parte. Se c’è un pistolero dei nostri tempi, uno che una mattina è uscito di casa e ha giocato al tiro a segno con tutti i negri che gli capitavano a tiro, questo ha poco a che spartire con la foto segnaletica sbiadita dell’uomo che da ieri, a quasi settant’anni, si trova all’isolamento in un carcere di massima sicurezza. Quell’uomo armato si chiamava Luca Traini e proveniva dal milieu del partito del ministro con le mostrine della polizia.

Il secondo simbolo è la pistola. In tempi non sospetti, Wu Ming 1 faceva notare come gran parte della grancassa mediatica italiana dimenticasse di ricordare che Alberto Torregiani, l’uomo in sedia a rotelle che spesso vediamo parlare davanti alle telecamere, non fu colpito dalle pallottole dei Proletari armati per il comunismo. Venne ferito da suo padre Pierluigi, a sua volta ucciso dai Pac il 16 febbraio di quarant’anni fa. Nell’allucinazione armata della vendetta sommaria, l’organizzazione di cui Battisti era militante voleva vendicare il fatto che il gioielliere Torregiani avesse ucciso un rapinatori. Pierluigi sparò e ferì per sbaglio anche l’allora tredicenne figlio Alberto. Se questo aspetto venisse menzionato non toglierebbe drammaticità alla narrazione. Tutt’altro: semmai consentirebbe di illuminare il fuoco incrociato della giustizia fai-da-te. Ma il feticcio vittimario che è stato cucito addosso a Torregiani prevede che questi venga descritto come «’eroe borghese’, un santo difensore della proprietà, un cavaliere immacolato». Questa storia fa breccia nel paese in cui si invoca il diritto di sparare a chi invade le proprie case, nell’Italia in cui un normale accertamento giudiziario volto almeno ad accertare gli estremi per la legittima difesa diventi insopportabile intrusione nel sacro diritto della proprietà privata.

Ecco la terza carta estratta dal mazzo dei tarocchi forcaioli: le manette. In molti si son stupiti, quasi sono rimasti delusi, nel notare che il Bandito che scendeva dall’aereo non portava i ferri ai polsi. Le manette non c’erano, però risuonavano. Aleggiano da tempo assieme ad altri simboli. Le catene da trascinare si accompagnano ai pigiami a strisce e al clangore metallico della palla al piede, nei discorsi non mancano le chiavi delle celle da buttare, le parole emanano la puzza del malcapitato che deve marcire in galera. Il codice penale che dovrebbe indicare sobriamente fattispecie di reato viene indirizzato contro figure specifiche per eccitare le folle: pensate alla legge sulla prescrizione ribattezzata come spazzacorrotti. Sono solo alcune delle figure retoriche che paiono uscite da un b-movie e che imperversano da quando l’impotenza della politica ha lasciato il posto all’invadenza del codice penale. Nel paese che perde ogni senso della misura parlando dell’arresto di Battisti i giudizi storici sono spesso affidati alle corti d’assise e le ricostruzioni del passato sono diventate oggetto di requisitoria. Il paese che non trova anomalo lo spettacolo che i potenti costruiscono attorno alla cattura di un singolo individuo. Un paese che non si allarma di fronte alla gogna sul piccolo pezzo di una storia più grande conclusasi da anni con vincitori e vinti. Un paese che ha deciso di rifugiarsi nei metodi spicci delle pubbliche accuse. E nei sistemi risolutori di piccoli, ridicoli, uomini in divisa.


*Giuliano Santoro, giornalista, scrive di politica e cultura su il Manifesto. È autore, tra le altre cose, di Un Grillo qualunque e Cervelli Sconnessi (entrambi editi da Castelvecchi), Guida alla Roma ribelle (Voland), Al palo della morte (Alegre Quinto Tipo). 

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