Siamo umani, non europei
Del manifesto per la lista unica di Carlo Calenda
di Alessandro Visalli
Noi non siamo europei. Nessun travestimento del nazionalismo, espressione appena domesticata del vecchio, storico, spirito imperialista delle borghesie del continente, ci riguarda.
Del Manifesto per la costituzione di una lista unica, di Calenda, come del precedente[1], non ci convince questo spirito di potenza, questa evocazione di destino che a un orecchio storicamente consapevole rimanda a tempi che devono trascorrere. Tempi da confinare nei libri di storia.
L’Italia è certamente un grande paese, ma non lo è perché ‘protagonista’, non lo è perché vuole avere un “ruolo nel mondo”, non perché vuole imporsi (sotto la foglia di fico della “sicurezza”).
Non va bene iniziare così:
“Siamo europei. Il destino dell’Europa è il destino dell’Italia. Il nostro è un grande paese fondatore dell’Unione Europea, protagonista dell’evoluzione di questo progetto nell’arco di più di 60 anni. E protagonisti dobbiamo rimanere fino al conseguimento degli Stati Uniti d’Europa, per quanto distante questo traguardo possa oggi apparire. Il nostro ruolo nel mondo, la nostra sicurezza – economica e politica – dipendono dall’esito di questo processo”.
L’Italia è un grande paese perché nella sua storia, ed in particolare nella storia popolare di liberazione, delle lotte di popolo, ha saputo trovare sintesi alte ed originali di passione per la libertà, la fratellanza e il reciproco sostegno.
È un grande paese per la capacità di risollevarsi, grazie alle straordinarie riserve di energia e intelligenza, dai suoi punti più bassi e di riscattarsi generosamente.
L’Italia è un paese che ha saputo trovare una delle sintesi politiche più alte ed efficaci nella sua Costituzione del ’48, e che negli anni seguenti ha saputo diventare un esempio per tutti.
L’Italia che a noi piace non è quella che piace a Calenda.
Non è l’Italia che esporta nel mondo, sacrificando i suoi lavoratori e importando milioni di persone in condizioni di sottoccupazione, mentre altri milioni di connazionali vengono accompagnati alle porte da imprese insensibili e incapaci da decenni di investire su di loro[2].
Va anche peggio come continua:
“L’Unione Europea è il risultato della consapevolezza storica e della volontà dei popoli europei. Un continente attraversato dalle guerre è oggi uno spazio pacifico e comune di scambi culturali, politici, economici, governato da regole ispirate a valori di libertà, tolleranza e rispetto dei diritti. L’Unione Europea è la seconda economia e il secondo esportatore del mondo. Un mercato unico di cinquecento milioni di persone, regolato dai più alti standard di sicurezza e qualità, che assorbe ogni anno duecentocinquanta miliardi di esportazioni italiane. Il nostro attivo manifatturiero è oggi doppio rispetto a quello che avevamo prima dell’euro e la nostra manifattura, seconda solo a quella tedesca, è legata da una inscindibile e strategica rete di investimenti, collaborazioni industriali, tecnologiche e commerciali con le altre economie europee. In Europa si concentra la metà della spesa sociale globale a fronte del 6,5% della popolazione mondiale”
I successi che Calenda elenca sono in realtà tragici insuccessi. La pace è un fatto, ma ovviamente determinato da cose molto più forti e pratiche delle organizzazioni sovranazionali che un vento può spazzare via in una mattina, come la storia insegna. La pace si è avuta in tutto il mondo, dal ‘45 ad oggi nessuna grande potenza, nessuna nazione tra le prime dieci, si è mai scontrata, e per un buon motivo: fino al ’91 c’era la diarchia Usa-Urss e poi c’è stato l’impero americano a garantirla.
Ma, soprattutto e più seriamente, gli scambi che Calenda vanta sono praticamente solo economici; sul piano politico si registrano, casomai, scontri crescenti, e questi sono ispirati solo alla competizione. Certo la competizione è ‘libertà’ ed è rispetto dei ‘diritti’, ma visti con gli occhi di chi questi se li può permettere. Chi non fa parte dei confortevoli salotti resta fuori al freddo, al freddo della crescente e spietata competizione. La libertà del mercato, è evidente, è per i ricchi.
Poi, certo, l’Unione Europea è il secondo esportatore al mondo. E’ potenzialmente una grande potenza economica, è un grande mercato, e, certo, il nostro attivo manifatturiero è cresciuto.
Ma la spesa sociale, che Calenda ipocritamente vanta, è costantemente ridotta dall’Unione Europea che, sotto la guida inflessibile del modello neo-mercatilista terdesco, vuole essere essenzialmente una grande potenza di esportazione: tra le due cose c’è un nesso evidente e necessario. Quel che non vuole dire Calenda è che questi “successi”, questa rinnovata volontà di prevalere nel mondo, sono costruiti proprio a spese del modello sociale europeo, e proprio a spese del suo straordinario popolo.
Il “grande conseguimento della storia” non è dunque l’Unione Europea, ma è, casomai, l’Europa come era prima della Unione.
Quel che, come cittadino del mondo, dell’Europa e italiano, io penso di essere chiamato quindi non è affatto difendere e far progredire il progetto neoliberale e neoimperialista europeo. Il progetto di guerra, economica per ora, che le élite industriali e finanziarie (ma anche buona parte di quelle politiche) da trenta anni portano ostinatamente avanti, al prezzo di qualsiasi sacrificio, purché sia di altri.
Quel che come cittadino del mondo, dell’Europa e italiano, io penso di essere chiamato a difendere è il modello sociale e costituzionale dei paesi che sono usciti dal nazi-fascismo e con la forza della loro energia e l’amore per la vera libertà hanno portato avanti per gli anni di vera crescita, civile e sociale dei nostri paesi. Anni di vera crescita umana e sociale che l’Unione Europea, uscita dalla crisi degli anni ’90, ha intenzionalmente interrotto.
Il rischio per la democrazia, e per la coesione sociale, ha ragione Calenda c’è[3]. Ma bisogna guardare dietro le sue spalle, perché sono quelli che lui difende a incarnarlo.
Per conservare l’Europa e rifondarla[4], nei valori dell’umanesimo democratico, bisogna andare quindi esattamente nella direzione opposta: bisogna mobilitare le forze del lavoro, del solidarismo e del volontariato, della funzione pubblica che deve ritrovare il suo orgoglio e la sua ineliminabile funzione prioritaria, della socialità diffusa, della politica democratica.
Bisogna riprendere la lotta, non c’è più molto tempo.