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I venti anni dell’euro. Un bilancio

di Guglielmo Forges Davanzati

L’euro compie venti anni ed è tempo di stilare un bilancio sull’adozione della moneta unica. Va detto in premessa che alla fine degli anni novanta, vi era un diffuso consenso – anche e soprattutto in Italia – sugli effetti favorevoli che avrebbe comportato l’adozione di una moneta comune. Gli argomenti, in particolare, erano due:

a) si riteneva auspicabile, per ragioni ideali, un’unificazione europea basata sull’assenza di conflitti armati nel continente, in una prospettiva di solidarietà fra i popoli europei sulla scia del Manifesto di Ventotene.

b) Si riteneva necessario – soprattutto nel caso italiano – dotarsi di un ‘vincolo esterno’ (il vincolo del 3% del deficit in rapporto al Pil), che, per così dire, legasse le mani a politici eccessivamente spendaccioni. Questo argomento fu largamente condiviso, soprattutto perché si attribuivano i problemi dell’economia italiana a un debito pubblico eccessivamente alto e perché questo veniva imputato agli eccessi di spesa pubblica improduttiva dei decenni precedenti. Si riteneva anche che la riduzione dei tassi di interesse combinata con l’impossibilità di ricorrere a svalutazioni per recuperare margini di profitto avrebbe incentivato gli investimenti[1].

L’euro non fu un’invenzione tedesca, come spesso si sostiene. Fu piuttosto il risultato della convergenza di interessi fra Francia, Germania e parte dell’imprenditoria italiana (soprattutto localizzata a Nord) già legata alla struttura produttiva del centro del continente[2]. A fronte della crescente concorrenza internazionale, si riteneva necessario costruire un’area produttiva fortemente integrata e, dunque, competitiva negli scambi internazionali. E, per far questo, si riteneva indispensabile dotarsi di una sola Banca centrale con il solo obiettivo di contenere l’inflazione, al fine di ridurre i prezzi dei beni esportati. Questo risultato – la riduzione del tasso di inflazione - fu effettivamente ottenuto, in virtù del calo dei salari e della trasformazione della Banca centrale tedesca (Bundesbank) – tradizionalmente vocata al solo controllo dei prezzi - in Banca centrale europea e del conseguente proseguimento di un indirizzo restrittivo di politica monetaria.

Non fu previsto nessun meccanismo di intervento in caso di crisi e, a distanza di venti anni, se ne può capire la ragione. La teoria economica allora dominante (e dominante ancora oggi) si fondava sulla convinzione che un’economia di mercato deregolamentata non potesse generare crisi economiche, a meno di interventi esterni al mercato.

Fino al 2008, anno nel quale la prima crisi generata negli Stati Uniti diventò effettivamente globale, vi era un diffuso consenso, anche e soprattutto in Italia, in merito al fatto che l’architettura istituzionale europea poteva funzionare. Nel 2008, la crisi dei mutui subprime si trasmette dagli Stati Uniti all’Europa attraverso due canali: quello finanziario, per effetto del fallimento di una delle più grandi banche americane (Lehman Brothers) e delle conseguenti crescite delle insolvenze anche per molte banche europee; quello reale, per effetto della caduta della domanda di importazioni USA e, conseguentemente, delle esportazioni europee. Le crisi bancarie vengono risolte attraverso salvataggi, iniezioni di spesa pubblica nei bilanci delle banche: misure che contribuiscono all’aumento del debito in quasi tutti i Paesi dell’area euro – soprattutto nei Paesi della sponda mediterranea. L’aumento dei debiti sovrani comincia a preoccupare il Governo tedesco e la commissione europea e, a partire dal 2009-2010, si avvia la stagione dell’austerità: tagli alla spesa pubblica combinati con ‘riforme strutturali’ (flessibilità del lavoro, privatizzazioni, liberalizzazione dei mercati dei beni e dei servizi). L’obiettivo dichiarato delle politiche di austerità era ridurre il rapporto debito/Pil – fissato, nei Trattati europei – al valore convenzionale del 60%. Tuttavia, la riduzione della spesa ha effetti così rilevanti di contrazione del Pil da produrre, in modo inatteso, un aumento del rapporto debito pubblico/Pil. Ovviamente, la contrazione del Pil e del tasso di crescita si associa a crescita del tasso di disoccupazione, caduta dei salari reali, crescita delle povertà, ondate di fallimento di imprese.

A partire dal 2009-2010, l’architettura istituzionale europea comincia a essere oggetto di critiche diffuse: si badi che nel decennio precedente le critiche non erano mancate, ma si era trattato di voci isolate.

L’ostinata difesa delle politiche di austerità da parte della commissione europea, con effetti devastanti soprattutto nei Paesi periferici (Portogallo, Italia, Grecia, Spagna – i c.d. PIGS), è all’origine della reazione sovranista alla quale si assiste da qualche anno, non solo in Italia. Si fa strada cioè la convinzione che l’Unione monetaria europea sia un fallimento, non sia riformabile e che la sola via di uscita consista nel farla fallire. Si registra, in Italia e non solo, una convergenza di idee su questo aspetto fra estrema destra e parte della sinistra cosiddetta radicale che poggia sulla difesa dell’interesse nazionale. E, secondo questa scuola di pensiero, l’interesse nazionale va difeso tornando alla lira.

Le critiche a questa impostazione sono numerose, e qui possono essere ricondotte alle seguenti.

- La conversione euro/nuova lira dovrebbe avvenire in segreto, per evitare attacchi speculativi e corsa agli sportelli bancari. Anche ammettendo che non si verifichino attacchi speculativi, l’assoluta segretezza dell’operazione (come peraltro previsto nel c.d. piano B del prof. Savona) dovrebbe comportare una qualche forma di ‘militarizzazione’ per evitare che i risparmiatori, in un contesto di massima incertezza, convertano i loro depositi in valute forti (euro o dollaro) – conversione che vanificherebbe l’intera operazione.

- Nel caso italiano, l’exit accentuerebbe problemi già esistenti e rilevanti, accelerando ulteriormente le divergenze regionali. Ciò soprattutto a ragione del fatto che chi lo sostiene ritiene che la ripresa della crescita economica in Italia dovrà essere pressoché interamente demandata all’aumento delle esportazioni nette (cosa resa possibile dalla svalutazione della nuova lira). Si consideri, a riguardo, che il 20% delle imprese italiane copre l’80% del totale delle esportazioni italiane e che queste imprese sono quasi tutte localizzate al Nord. In questo scenario, è ragionevole attendersi un ulteriore impoverimento delle regioni meridionali e, come sempre accaduto in Italia con il ricorso alle svalutazioni competitive, un ulteriore freno alle innovazioni. Se infatti le imprese sono poste nella condizione di guadagnare competitività sui mercati internazionali tramite deprezzamento del tasso di cambio, viene meno, per loro, l’incentivo a guadagnare competitività tramite incrementi di produttività e, dunque, tramite introduzione di innovazioni.

Se l’Unione Monetaria Europea è irreversibile (secondo una ben nota metafora è come l’Hotel California della canzone degli Eagles: si può entrare ma non si può uscire) e se, al tempo stesso, è palesemente disfunzionale, due soluzioni sono ammissibili: (i) attuare – nei limiti dei vincoli di finanza pubblica stabilita dai Trattati – politiche nazionali che contribuiscano effettivamente alla crescita, guardando a un orizzonte di lungo periodo (p.e. un piano di investimenti pubblici soprattutto nel campo della ricerca scientifica); (ii) attrezzarsi per una lenta e progressiva cessione di sovranità, nella direzione di dar maggiore rilevanza ai centri decisionali europei (in primis, al Parlamento europeo).


NOTE
[1] V. P. Ciocca, Tornare alla crescita. Perché l’economia italiana è in crisi e come fare per rifondarla. Roma: Donzelli.
[2] V. R. Bellofiore, L’euro dopo venti anni. Riforma cercasi disperatamente, “L’Indro”, gennaio 2019.

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