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“La secessione dei ricchi”(*): la Lega è sempre la Lega Nord

di Alessandro de Toni

Le Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, hanno preso l’iniziativa per realizzare «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» secondo il dettato del terzo comma dell’art. 116 della Costituzione, introdotto dal centrosinistra con la riforma del 2001.

Nel 2001, la riforma costituzionale ha, infatti, aggiunto all’articolo 116 il comma 3, che prevede “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” anche per le regioni a statuto ordinario. L’autonomia aggiuntiva del terzo comma può essere approvata attraverso una semplice legge rinforzata (approvazione a maggioranza assoluta). Il procedimento è stato attivato da tre regioni (Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto), arrivando alla firma di tre pre-intese tra Governo e Regioni interessate il 28 febbraio del 2018, firmate per il Governo Gentiloni dal Sottosegretario Bressa del PD.

Come osserva Paolo Balduzzi, il legislatore non si è mai preoccupato di approvare una legge di attuazione del comma 3, in particolare per chiarire metodologie di attivazione delle richieste di federalismo differenziato, tempi di realizzazione e di verifica dei risultati, costituzione di un organo per il calcolo e la determinazione dei fabbisogni finanziari. Ciononostante, nel corso della passata legislatura, il metodo scelto è stato quello dell’intesa, un procedimento analogo a quello utilizzato per le confessioni religiose: in questo modo il Parlamento sarebbe tenuto a un voto del tipo “prendere o lasciare” sull’intero accordo, senza possibilità di modifiche.

Già la riforma costituzionale del 2001, fatta approvare dal centro-sinistra, aveva creato un regionalismo semi-federale che riconosceva che in alcune regioni economicamente più forti i servizi potessero essere migliori rispetto a quelli previsti dai semplici livelli essenziali (Sergio Marotta), creando le premesse per le attuali richieste di regionalismo differenziato. Non a caso a tali richieste si è accodata l’Emilia-Romagna a presidenza PD.

Le Regioni che hanno chiesto l’autonomia differenziata vogliono avere l’ultima parola su grandi temi come l’istruzione, l’ambiente o il governo del territorio. Negli elenchi delle richieste, Lombardia e Veneto puntano a tutte le 23 competenze oggi in coabitazione con lo Stato, mentre l’Emilia-Romagna si accontenta di 15. Le richieste riguardano più di 200 funzioni amministrative. Si tratta innanzitutto di risorse finanziarie. Alcuni calcoli sostengono che sono in ballo più di 21 miliardi. Secondo il Sole-24Ore, i portafogli più consistenti riguardano istruzione e ambiente. La scuola da sola varrebbe 11 dei 21,5 miliardi trasferibili. Il tutto avverrebbe in due tappe: nei primi 5 anni il trasferimento avverrebbe sulla base del “costo storico”, poi facendo riferimento ai “costi standard”. E, in teoria, si dovrebbero contestualmente definire i LEP, i livelli essenziali delle prestazioni da garantire a tutti i cittadini.

Entro tre settimane il Governo deve definire le intese. Per quanto concerne il Veneto sembra che il governo abbia definitivamente archiviato la pre-intesa e che stia discutendo su un progetto di legge presentato dalla Regione. La Lega preme per procedere rapidamente minacciando (Giorgetti, Fontana, Zaia) la crisi di Governo qualora i ministri dei 5 stelle continuassero nel loro boicottaggio passivo rallentando la definizione delle intese concernenti le rispettive competenze. D’altronde, il punto 20 del Contratto di governo è chiaro: «Sotto il profilo del regionalismo, l’impegno sarà quello di porre come questione prioritaria nell’agenda di Governo l’attribuzione, per tutte le Regioni che motivatamente lo richiedano, di maggiore autonomia in attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione, portando anche a rapida conclusione le trattative tra Governo e Regioni attualmente aperte. Il riconoscimento delle ulteriori competenze dovrà essere accompagnato dal trasferimento delle risorse necessarie per un autonomo esercizio delle stesse».

Il Veneto chiede il trasferimento delle competenze legislative su tutte le 23 materie possibili e il trattenimento del 90 per cento del gettito delle imposte territoriali per finanziare le maggiori spese. Come sostiene G. Viesti, “rapportare il finanziamento dei servizi al gettito fiscale significa stabilire un principio estremamente rilevante: i diritti di cittadinanza, …, possono essere diversi fra i cittadini italiani; maggiori laddove il reddito è più alto.”

Le resistenze nascono, oltre che dalla preoccupazione per il trasferimento di risorse ulteriori a Nord penalizzando il Mezzogiorno, dal fatto che l’autonomia differenziata in settori come la sanità o l’istruzione aumenterebbe la disparità di trattamento tra i cittadini delle diverse regioni già oggi presente. Inoltre, si creerebbe, secondo alcuni costituzionalisti, una situazione di fatto irreversibile.

Il tema è particolarmente delicato per il Movimento 5 stelle che ha il suo maggiore bacino elettorale nel Mezzogiorno, ma mette anche in luce le contraddizioni della Lega che alle elezioni politiche del 2018 si presentò come “Lega” abbandonando il suo appellativo di “Lega Nord”. Finora Salvini è riuscito, sviluppando la tematica della sicurezza e anti-migranti, a conquistare consensi crescenti nel Sud. Salvo poi dover affrontare i malumori della sua base per il Reddito di cittadinanza, anche se è riuscito ad ottenere non poche concessioni da Di Maio a favore delle imprese.

Cancellare la parola “Nord”, secondo il rappresentante della minoranza interna, Gianni Fava, assessore della Giunta Maroni che si è occupato del referendum lombardo per l’autonomia, è un errore. “Io sicuramente non sono d’accordo – ha detto Fava – per quanto ne so, nemmeno Umberto Bossi lo è. La Lega è nata e resta il sindacato del Nord, non mi vergogno della mia storia”. Ma più che dalla minoranza bossiana, il problema è rappresentato dagli umori della base sociale storica della Lega di cui sono espressione Zaia, Maroni, Fontana e Giorgetti.

Secondo Alessandro Visalli, “la base sociale che sviluppa egemonia nella Lega è organizzata intorno ad operatori economici, prevalentemente al centro-nord, i quali hanno interesse diretto a competere sul mercato interno in grande sofferenza e per questo richiedono insieme protezione, alleggerimento fiscale, sicurezza e contenimento dei costi (dunque chiedono lotta all’inflazione, basso costo del lavoro)”. E, aggiungerei, anche per competere sul mercato estero. Molte PMI del Lombardo-Veneto lavorano, infatti, come contoterzisti dell’industria tedesca ed hanno visto ridursi i margini di profitto.

Una base sociale che ha sempre considerato il Nord Italia parte della “Kernel Europa” (il nucleo centrale europeo). Basti ricordare che nel 1996 la Lega Nord minacciava di spaccare il Paese per permettere alla parte più progredita, il Nord, di aderire all’euro, visto che l’Italia unita non sembrava in grado di farlo. L’allora ministro dell’economia del governo ombra padano, Pagliarini, spiegò che ci volevano “due casse e due monete, il Nord con l’euro e il resto fuori come vuole la Germania, perché non è giusto che la Padania sia esclusa dall’euro per colpa di Roma e del Sud arretrato”. Si trattava di “riconquistare i soldi del Nord”. Anche nel 2012, la Lega Nord ci riprova con Maroni segretario deponendo nel mese di settembre in Cassazione una proposta di quesito referendario “per l’adesione all’area euro limitata ai territori che rispettano il pareggio di bilancio”. In altri termini, si trattava di lasciare il Nord Italia dentro la moneta unica, tenendo fuori il Sud che, secondo i calcoli leghisti, era in deficit. L’ispirazione era quella della CSU bavarese. Ora la crisi iniziata nel 2008 ripropone in forme diverse l’opzione “bavarese” per la Lega, mai del tutto abbandonata anche in previsione di futuri momenti difficili per il nostro Paese. Un’altra fonte di ispirazione è rappresentata dalle vicende catalane. La linea di Salvini punta però a diventare egemone su tutto il territorio nazionale, ma deve anche rispondere alla base sociale centrale della Lega. Lo abbiamo visto con le polemiche sul Reddito di cittadinanza e soprattutto con l’iniziativa dirompente del regionalismo differenziato.

L’altro aspetto preoccupante di questa vicenda è la nascita di “un partito del Nord”, o del PIL se preferite, che vede uniti Lega, Forza Italia e settori consistenti del PD. L’approccio al Reddito di cittadinanza è simile (Salvini: “il reddito di cittadinanza? Non per stare sul divano”), basti ricordare il tweet di Maria Elena Boschi: “Dice Di Maio che col reddito di cittadinanza da oggi cambia lo Stato sociale. La colonna sonora infatti diventa “Una vita in vacanza”. Abbiamo già richiamato le ambiguità della riforma costituzionale del 2001, le concessioni del PD alle richieste di federalismo differenziato con l’accordo tra le tre Regioni e il Governo Gentiloni, nonché, per l’appunto, la posizione della stessa Regione Emilia-Romagna. Convergenza sigillata dalle manifestazioni torinesi per il SI TAV che hanno visto marciare insieme Fontana, Toti e Chiamparino.

Difendere l’unità del nostro Paese è dunque indispensabile per recuperare in prospettiva pezzi di sovranità nazionale.


(*)L’espressione è di Gianfranco Viesti – “Verso la secessione dei ricchi?” – Laterza.

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Eros Barone
Wednesday, 30 January 2019 21:31
Il progetto secessionista che si sta sviluppando in Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna spinge a riflettere, come marxisti, sui problemi della forma-Stato e della sua crisi. Orbene, l’ignoranza, l'opportunismo o, addirittura, la complicità, che dominano in una sinistra ormai culturalmente suicida e largamente subalterna alle impostazioni della classe dominante, rendono necessaria la riaffermazione delle basi dottrinali elaborate dal socialismo scientifico a tale proposito. In questo senso, Friedrich Engels è un punto di riferimento essenziale, poiché nella sua "Critica del progetto di programma del Partito socialdemocratico tedesco" (1891) distingue, con rigore materialistico e dialettico, le differenti situazioni della Germania, degli Stati Uniti d’America, della Svizzera e della Francia. Per gli Stati Uniti Engels riconosce che “la repubblica federale ancora oggi, nel complesso, è una necessità, data la gigantesca estensione territoriale” di quel paese. Il federalismo “sarebbe un progresso in Inghilterra”, perché “sulle due isole vivono quattro nazioni” [Inghilterra, Scozia, Galles, Irlanda]. Invece, la repubblica federale “già da tempo è divenuta un ostacolo nella piccola Svizzera, sopportabile soltanto perché la Svizzera si accontenta di essere un membro puramente passivo del sistema degli Stati europei”. Per quanto concerne la Germania, il giudizio di Engels è netto: “A mio parere, il proletariato può utilizzare soltanto la forma della repubblica una e indivisibile”. Per la Germania, infatti, “una imitazione del federalismo svizzero sarebbe un enorme passo indietro”. Ciò che divide “lo Stato federale dallo Stato unitario”, osserva Engels, è “il fatto che in ogni singolo Stato federato, ogni Cantone ha la propria legislazione civile e penale”. Ma - in un paese nel quale non convivano nazioni diverse con lingue e culture diverse - la legislazione dev’essere unitaria: e ciò corrisponde all’interesse di tutti i lavoratori. Gli esempi storici ai quali Engels si richiama, come ai più democratici, sono quelli della rivoluzione americana e della Francia negli anni della Rivoluzione che vanno dal 1792 al 1798: “Dal 1792 al 1798 ogni dipartimento francese, ogni comune godettero di una amministrazione completamente autonoma... L’America e la prima repubblica francese mostrarono a noi tutti in che modo si debba istituire l’amministrazione autonoma e come si possa fare a meno della burocrazia. ...Tale amministrazione autonoma provinciale e comunale è assai più libera che, ad esempio, il federalismo svizzero, dove il Cantone è bensì assai indipendente rispetto alla Confederazione, ma lo è anche rispetto al distretto e al comune”. Da questa analisi Engels ricava la rivendicazione da inserire nel programma del partito: “amministrazione completamente autonoma nelle province, nei distretti e nei comuni, da parte di impiegati eletti con suffragio universale. Abolizione di ogni autorità locale e provinciale nominata dallo Stato”. Pertanto, a quale conclusione si giunge sulla scorta di un’analisi scientifica che, come questa, nel cogliere le invarianti della forma-Stato moderna definisce l’esatto terreno dell’iniziativa del movimento di classe? La conclusione a cui si giunge è che in uno Stato che attraversa una crisi profonda, quale l’odierno Stato italiano, il federalismo è doppiamente pericoloso, perché nutre il germe del secessionismo, oggi voluto dalle forze più reazionarie delle regioni ricche dell’Italia del Nord a svantaggio dei lavoratori e della popolazione delle regioni più povere. Tutti gli autentici marxisti non possono dunque che avversare risolutamente il federalismo liberista e il secessionismo anti-unitario che ne è l'inevitabile conseguenza, strumenti politici che mirano a separare e dividere i lavoratori. In ultima analisi, il pensiero
marx-engelsiano insegna che solo uno Stato di tipo nuovo, che rechi in sé il codice della sua estinzione ed il cui orizzonte superi sia il macro-nazionalismo sia i micro-nazionalismi, potrà realizzare un’effettiva uguaglianza fra tutte le componenti territoriali della comunità nazionale.
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