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Simplicio e la scienza, o della necessità della filosofia

di Francesco Coniglione

«Chi pensa sia necessario filosofare deve filosofare e chi pensa non si debba filosofare deve filosofare per dimostrare che non si deve filosofare; dunque si deve filosofare in ogni caso o andarsene di qui, dando l’addio alla vita, poiché tutte le altre cose sembrano essere solo chiacchiere e vaniloqui.»
Aristotele

La cosa più difficile da far capire al Simplicio nostro contemporaneo – utilizziamo questo nome in onore a Galileo – è che quando sta parlando di cosa sia la scienza e di cosa includere o meno al suo interno, non sta facendo più scienza (la sua specialistica scienza nella quale può essere anche bravo: fisica, chimica, matematica e quant’altro), ma qualcosa di diverso da essa. Chiamatelo come volete (filosofia, epistemologia, “discorso sensato”, buon senso ecc.), ma non è certo scienza, cioè quella scienza della quale vuole difendere la “scientificità”.

Questo può anche essere lapalissiano per qualcuno, ma non per Simplicio, che è convinto di essere autorizzato a parlare di pseudoscienza, o del rapporto nientepopodimeno tra scienza e filosofia, allo scopo di distinguere ciò che è autentica scienza e ciò che non lo è, al fine di bandire la prima dalla repubblica dei Simplici e dal dominio della “vera conoscenza” – che è solo quella della scienza praticata da lui e dagli altri Simplicio suoi parenti. Ma in base a quali teoremi o principi della sua scienza è in grado di arrivare a dimostrare una tesi del genere?

Ovviamente non può perché, come abbiamo detto prima, la tesi che la disciplina X è scienza e quella Y è pseudoscienza non fa parte della scienza, cioè non è un’affermazione che possa essere inclusa tra i principi o i teoremi o le leggi di qualsivoglia scienza. Insomma il problema della distinzione tra scienza e pseudoscienza non può essere un problema che si risolve “scientificamente”.

Se le cose stanno così, allora Simplicio non può pensare che sia possibile un “Comitato” fatto da scienziati che possa decidere ciò, ovvero dichiarare quali sono le discipline scientifiche e quali no, in quanto esso potrebbe e dovrebbe limitarsi a dire: “quello che noi facciamo è scienza, quello che non facciamo è pseudoscienza; di conseguenza tutto ciò che confligge con i principi e le leggi che appartengono alla nostra scienza, deve essere giudicato come pseudoscienza”. Ma questa affermazione ha solo la validità di un atto di fede, analogamente a quanto potrebbe fare un altro Comitato che riunisca tutti i praticanti di scienze alchemiche. Il Comitato dei Simplicio potrebbe per cavarsi d’impaccio pensare semplicemente di sostenere che è scienza tutto ciò che viene riconosciuto come tale dagli uomini di scienza, di cui essi sono i rappresentanti; e chi sono gli “uomini di scienza”? Ovviamente tutti coloro che fanno ricerca applicando il metodo scientifico. E cos’è il metodo scientifico? Quello applicato da tutte le scienze praticate dagli scienziati… Insomma saremmo a un di presso nella stessa situazione di una famosa storiella ebraica, cioè di chi domanda a un rabbino: “Come fai a dire che la Bibbia è infallibile?” – “Perché la bibbia è la parola di Dio!” – “E chi lo dice?” – “La Bibbia!” – “E perché credi nella Bibbia?” – “Perché è infallibile”; e così siamo ritornati alla casella di partenza.

E allora, l’affermazione per cui si sostiene che le discipline praticate dal nostro Simplicio e dai membri del Comitato sono scienza, mentre le altre non lo sono, dovrebbe essere giustificata e motivata in qualche modo; ma per far ciò lo scienziato dovrebbe smettere di essere tale e trasformarsi in qualcosa d’altro, così come faceva Einstein quando affermava che per lui era impossibile ammettere che Dio gioca a dati col mondo; a meno di non pensare che la prova possa essere ricavata come un teorema dai principi interni alla propria disciplina scientifica, il che abbiamo visto non può essere. Ma Simplicio invece pensa che l’aver conseguito importanti risultati nel suo campo scientifico, lo abiliti di per sé a trasportare la stessa esattezza e apoditticità anche negli altri campi su cui disquisisce e ammaestra: in filosofia, in politica della scienza, in politica tout court o addirittura nel predicare una nuova fede. O persino pensa che il fatto di essere uno scienziato lo metta al sicuro da ogni altro sapere “metafisico”, per cui può serenamente lanciarsi in discussioni metafisiche che dimostrano l’inutilità della metafisica credendo così di fare pura, semplice e immacolata scienza.

Ma la cosa più grave è che il nostro Simplicio, quando parla della propria scienza o del proprio lavoro, non rendendosi conto che così non fa scienza, prende a dileggiare e disprezzare chi ha invece competenza sui discorsi che si fanno sulla scienza e quindi sa almeno orientarsi sui diversi modi di parlare di essa; discorsi fatti per lo più da scienziati e studiosi dalla formazione scientifica che, nell’interrogarsi sulle condizioni e i caratteri dalla propria scienza, hanno deposto il camice del laboratorio e si sono cimentati con concetti estranei a quelli ogni giorno utilizzati, magari provenienti da altre tradizioni di pensiero. E nel porsi domande su sé stessi (se stessi in quanto scienziati), hanno esercitato quel caratteristico pensiero riflesso (o di secondo ordine) che per la prima volta venne alla luce nelle colonie greche della Ionia e che poi ha sviluppato tutta una sua tradizione.

Ma il nostro Simplicio – serenamente ignaro di tutto ciò – è invece come quel pesce che, solo perché sa di essere abile nuotatore ed esperto nello sfruttare le correnti marine e le diverse densità d’acqua, irride lo studioso di idrodinamica perché se si buttasse a mare magari annegherebbe. In tal modo Simplicio finisce per avere l’intelligenza del pesce, forse del pesce palla che gonfiandosi sempre più finisce per esplodere sbrindellando in giro i non sensi delle sue argomentazioni. E la farfalla-scienza che si pensava dovesse uscire splendida nei suoi brillanti colori dalla crisalide-filosofia dalle forme non accattivanti e soprattutto di per sé inutile se non per il fine generativo che gli viene assegnato, finisce per precipitare a terra perché, come la colomba di Kant, pensava di fare a meno della resistenza dell’aria, di quell’aria che tutti ci circonda e che si alimenta di pensieri, tradizioni, idee, senza i quali neppure saremmo in grado di aprire gli occhi e di vedere alcunché.

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