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filosofiainmov

L’emancipazione ai tempi dei social

Considerazione a margine sul dibattito Quarto potere ed oltre

di Laura Paulizzi

La nostra epoca è caratterizzata dalla possibilità di accesso ad una grande pluralità di contenuti grazie a tecnologie disponibili di facile utilizzo per tutti. La compartecipazione che le nuove tecnologie sono in grado di offrire, non richiama una dimensione di presenza effettiva, anzi è molto simile alla condizione inautentica dell’esistenza quotidiana descritta da Heidegger in Essere e tempo, una quotidianità in cui ci si trova. Un Si riflessivo, das Man, ombra di un agire umano privo di scelta, condizionato e trascinato dall’andamento della massa. Una presenza, quella dell’individuo nella sua singolarità, che si conforma ad una collettività da cui viene inglobato senza riflessione, senza mediazione. A questa esistenza Heidegger fa corrispondere il linguaggio della Gerede (§35), la chiacchiera, che caratterizza l’espressione linguistica propria della comprensione e dell’interpretazione dell’esserci quotidiano. Questo tipo di comunicazione non penetra nell’essenza del contenuto di cui si discute. Il discorso non si fa garante dell’esattezza e della conformità delle cose trattate, non si appropria della cosa ma diviene la diffusione e la ripetizione di se stesso:

«La capacità media di comprensione del lettore non sarà mai in grado di decidere se qualcosa è stato creato e conquistato con originalità o se è frutto di semplice ripetizione. La comprensione media non sentirà mai neppure il bisogno di una distinzione di questo genere, visto che essa comprende già tutto. La totale infondatezza della chiacchiera non è un impedimento per la sua diffusione pubblica ma un fattore determinante. La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza alcuna appropriazione preliminare della cosa da comprendere»[1]

L’infondatezza della chiacchiera come ciò che permette e promuove la sua stessa diffusione, ci fa pensare al nesso esposto da Renato Parascandolo tra una massa incolta suggestionata da fake news, e il concetto di utente-merce che alimenta una “economia del gratis” dove la qualità di un contenuto viene sacrificata in nome di una quantità di visualizzazioni.

Il panorama descritto sembra fungere da specchio dell’attuale condizione sociale in cui la sottigliezza del limite tra informazione e disinformazione fonda la sostenibilità del mondo della rete. Ma per comprendere in profondità il senso delle nuove tecnologie è bene risalirne all’origine, e vedere come la loro evoluzione possa darci un’idea più edificante di quella che è oggi la condizione dell’individuo in rapporto alle proprie conoscenze e alla collettività.

Il nuovo concetto di tecnologia nasce tra le pagine dell’Encyclopédie. Alla voce Arte Diderot ci rende evidente la trasformazione culturale di tutta la modernità. In quel contesto la tecnologia vive un rovesciamento radicale, al punto da assumere nella cultura moderna un senso inverso a quello originario.

Nel 1777, nel Supplément dell’Encyclopédie, il termine compare, trasformato in un nuovo significato, evolutosi in seguito a trent’anni di studio, osservazione, condivisione e diffusione delle idee da parte degli intellettuali laici dell’epoca. Lo scopo dei philosophes era proprio quello di mostrare come le arti meccaniche fossero parti integranti della cultura e della formazione del cittadino. La parola, attraverso la definizione, verbalizzava il processo di una téchne rimasta inespressa nei gesti degli artigiani, di chi svolgeva il proprio mestiere senza possederlo concettualmente, senza “saperlo”. A queste minuziose descrizioni che concernevano le tecniche di produzione, la costruzione di macchine ed oggetti, gli strumenti utilizzati, erano state inserite delle immagini (tavole) estremamente dettagliate come sussidio alla comprensione di ciò che attraverso la sola lettura non poteva fornire un’idea fedele alla cosa descritta. L’Encyclopédie come articolazione linguistica delle arti, di una praxis silenziosa, pone le basi per una tecnologia nel suo senso letterale, come “discorso ragionato sulle téchnai”, realizzando uno dei principali intenti di Diderot e D’Alembert, unire teoria e prassi.

L’importanza di questo immenso lavoro è evidente se pensiamo al significato stesso della parola “enciclopedia”: dal greco en-kyklios-paidèia, che vuole dire proprio “formazione in circolo”[2]. Quello che le Lumières auspicavano era in primo luogo di favorire lo sviluppo della coscienza di tutti gli individui, arricchendone le conoscenze, e cambiando allo stesso tempo il comune modo di pensare. Persino quelle persone che si approcciavano a quel sapere, prive di qualunque conoscenza preliminare, iniziavano a comprendere in modo nuovo. Gli individui erano curiosi di sapere secondo quale legge le cose funzionavano in un determinato modo, quali cause vi erano alla base di alcuni processi e la natura stessa dei processi di produzione degli oggetti che facevano parte della loro quotidianità ma di cui ignoravano l’origine, la composizione, la storia.

Il nuovo approccio dei philosophes concerneva anche l’ambito della prassi. Nel momento in cui si recavano nelle botteghe per osservare da vicino gli artigiani all’opera, riproducevano attraverso le immagini esatte il contenuto di alcuni articoli, favorendo al lettore un approccio visivo di tipo analitico.

Per noi oggi l’immagine è preponderante per la conoscenza di un oggetto, ne è il nucleo stesso, la base principale da cui partire. Essa ha sostituito la parola nel ruolo di mediazione tra il soggetto e il concetto. L’immagine è il tramite non dispiegato che tende a condurci all’essenza della realtà, ed è l’immediatezza che caratterizza ed elimina ogni mediazione con il contenuto, il quale resta nella sua particolarità senza assumere un valore universale, senza cioè che abbia luogo il processo mediante il quale la percezione immediata di un oggetto passa ad una forma di conoscenza universale.

Limitatamente ad un approccio descrittivo, questo nuovo mondo ci appare non solo afflitto da quel mancato passaggio da una data conoscenza particolare ad un sapere universale in progresso, ma al contrario propenso alla rinuncia di rappresentazioni universali in favore di una riproduzione del particolare, che ripete ma non crea.

È al tempo stesso vero che la rete, con le sue contraddizioni, potrebbe essere il risultato, quantomeno formale, di quella cultura che auspicavano i nostri philosophes aprendo il campo al sapere condiviso, al libero pensiero. Una prima differenza che possiamo cogliere, risiede nel fatto che nel XVIII secolo la produzione di contenuti era la sintesi di un lungo progetto di studio messa in atto dagli intellettuali più coraggiosi dell’epoca, mentre oggi chiunque può attingere e diffondere i contenuti in rete, pur non avendo cognizione di un metodo di ricerca. Il progetto enciclopedico era inoltre metodologicamente strutturato in “rinvii”, in pieno stile libertino, che faceva sì che la voce dell’autore si smarrisse tra le voci degli ambiti più disparati del sapere. Questo metodo era sicuramente un antidoto alla censura, e l’infinito sistema di connessioni, attraverso il confronto/scontro dei diversi articoli consultati permetteva al lettore di creare una conoscenza personale e spaziare da un contesto all’altro senza che avesse una conoscenza pregressa dell’oggetto. Questo sistema favoriva lo sviluppo dell’immaginazione mettendo il soggetto in grado di “coltivarsi”, mediante un personale percorso di formazione.

L’attuale rapporto tra tecnologia e individuo ci mostra un paradosso. La molteplicità delle occasioni che il web ci offre, a causa della simultaneità con cui lo strumento le presenta, e dello “tsunami di informazioni”, per dirla con Edgar Morin, genera una passività nel lettore. Mentre nell’Encyclopédie era all’opera un soggetto attivo, impegnato nella ricerca di connessioni, ora di fronte allo schermo il soggetto è passivo, subisce il flusso continuo di notizie. Queste connessioni faticano oggi ad emergere, sfavorite dalle nuove tecnologie comunicative segnate da un linguaggio sempre meno articolato. Nel web sono protagoniste le immagini che al contrario della parola, non sviluppano la capacità di immaginare, ma instaurano un rapporto di sottomissione del soggetto all’informazione. Come aveva notato già Diderot (Salon, 1767) la preponderanza dell’immagine blocca la capacità di sviluppare un pensiero proprio.

Il rapporto immediato tra il soggetto e l’oggetto, favorisce una dimensione inconscia in cui l’immagine resta interna e inviluppata, e non viene portata a livello della coscienza, non è cioè articolata in un linguaggio che conduca quella tacita e irriflessa elaborazione ad un atto creativo, frutto invece di una rielaborazione personale del contenuto.

Se l’oggetto percepito attraverso l’immagine non subisce una trasformazione, non viene espresso dalla coscienza e, dunque, condiviso, tende ad essere annullato, arginando una possibile messa in circolo delle idee che abbiamo visto aver favorito proprio la nascita della tecnologia.

Alla luce di questo rovesciamento di senso il lemma “tecnologia”, da discorso ragionato sulle téchnai, che esplicitava e mediava la riflessione tra il soggetto e il concetto, diviene oggi la rappresentazione dell’immediato, traduzione di rapporti privi di riflessione, e anche di permanenza se pensiamo alle “storie” postate sui social.

Va sottolineato come l’assenza della mediazione non infici solo la qualità del rapporto tra un soggetto e il contenuto che questi percepisce, ma compromette l’evoluzione e il progresso della cultura tout court. Hegel sostiene proprio l’identità tra la mediazione e la cultura, identità creatasi a partire da uno sradicamento dall’immediatezza e allo stesso tempo dall’acquisizione di conoscenze generali[3]. Cultura, mediazione e universalità coincidono, e il linguaggio, anche attraverso l’immagine, non può non esprimere ed interpretare questo connubio.

Sembra che la nostra attuale cultura non stia vivendo quel passaggio dal particolare all’universale che aveva invece animato e caratterizzato il movimento culturale dei Lumi. Tuttavia, come viene enunciato da Renato Parascandolo il web è un nuovo spazio pubblico in cui si alternano due tipi di “interlocutori”, quelli che tentano di utilizzarlo come luogo di condivisione, di dialogo, di scambio di conoscenze, e quelli che invece danno vita ad episodi di vera e propria malattia mentale, sfruttando questo spazio come sfogo dei sentimenti più negativi come la rabbia e il rancore. In quanto tale esso va compreso come un luogo eterogeneo, contraddittorio, segnato da una dialettica interna che, come tutti i movimenti dialettici, non può non dar vita a qualcosa di inedito, che forse al momento ci resta celato.

La questione da considerare è dunque legata allo spirito dei lavori messi in atto oggi dalla Fondazione Basso e da Filosofia in movimento. Questo dialogo fra studiosi ed intellettuali contribuisce a sviluppare il pensiero critico a partire dalle nuove tecnologie. Alla luce di questo impegno partecipato, che si realizza tanto nell’incontro dei soggetti nel contesto di seminari, quanto nello scambio di materiali sulla piattaforma web, come un luogo non più di condivisione quantitativa, ma come una nuova occasione di emancipazione rispetto al pensiero dominante.


Note
[1] M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. Pietro Chiodi, Longanesi & C., Milano, 1976, p. 215.
[2] Per un’esegesi del rapporto tra Encyclopédie e illuminismo si veda: P. Quintili, Illuminismo ed Enciclopedia, Carocci, Roma, 2005.
[3] Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad. it. De Negri, vol. I, La Nuova Italia, Firenze, 1973, p. 4. : «L’inizio della cultura e della liberazione dall’immediatezza della vita sostanziale dovrà sempre consistere nell’acquisire cognizioni di principi e punti di vista generali», dove la “vita sostanziale” è la condizione immediata dell’unità primitiva che precede la riflessione. 

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