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L'amica seriale

di Riccardo Castellana

Fino al 2011 Elena Ferrante era stata una scrittrice di nicchia. Un po’, certo, aveva giovato alla relativa popolarità de L’amore molesto l’intenso film di Martone; meno, a I giorni dell’abbandono, il brutto lungometraggio di Roberto Faenza. Ma un piccolo gioiello come La figlia oscura, forse il vero capolavoro della scrittrice napoletana, è stato letto e apprezzato esclusivamente grazie al passaparola, e a qualche recensione favorevole, tenendo l’autrice lontana dai riflettori dei mass media. Pochissimo, non a caso, si disquisiva a vanvera, come si fa ora, di chi si nascondesse dietro quello pseudonimo (uno sport che ha fatto vittime eccellenti), e ciò che contava davvero era la scrittura: una scrittura eccezionalmente densa e corposa, capace di risvegliare archetipi profondi intorno alla tematica, estremamente reale e concreta, del rapporto tra madre e figlia.

Dall’apparizione, nel 2011 appunto, del primo volume dell’Amica geniale le cose sono cambiate. A cominciare dalla dimensione del “caso” Ferrante, che ha oltrepassato non solo i confini socio-culturali d’origine, ma addirittura quelli nazionali: ci sono nel mondo serissimi professori di Letteratura rinascimentale inglese disposti a proclamare L’amica geniale un capolavoro della World Literature, e per nulla timorosi di sfidare, così facendo, il sussiego e l’aria di sufficienza dei loro interlocutori italiani; e ci sono state anche (in Italia) riviste di teoria materialista della letteratura che alla Ferrante hanno generosamente dedicato numeri monografici.

Di solito, però, gli estimatori (soprattutto stranieri) dell’Amica geniale non conoscono affatto i primi libri della Ferrante. E se li conoscessero molto probabilmente non li apprezzerebbero, tanto sono diversi l’impianto romanzesco, la lingua, gli obiettivi di quelli rispetto alla nuova quadrilogia.

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Quella dell’Amica geniale è una struttura seriale. Da feuilleton o da teleromanzo. Non è un insulto, ma un dato di fatto: la serialità, del resto, può generare spesso ottime finzioni narrative, letterarie o televisive. Heimat, di Edgar Reitz, è stato un prodotto cinematografico seriale di altissimo livello, amato da un paio di generazioni di spettatori; e anche alcune serie tv nordamericane lo sono, oggi, sebbene in modo diverso. Della serialità, i quattro volumi de L’amica geniale possiedono l’ingrediente principale: la ricorsività dei personaggi. Le stesse, poche, figure sono seguite per sessant’anni, dall’infanzia nel rione fino alle soglie della vecchiaia: ciò che ci appassiona di loro è il riconoscerne l’identità nel mutamento, il ritrovarli cambiati oppure identici a se stessi, in situazioni più o meno sorprendenti, che costituiscono poi gli snodi principali della trama. Ed è proprio sulla serialità del romanzo che gli autori della serie televisiva andata in onda sulla RAI nelle ultime settimane del 2018 hanno giustamente insistito (con quali esiti, lo diremo tra poco).

Le tematiche del romanzo, peraltro, non sono affatto banali. E non possono certo essere ridotte a quello che qualche lettore particolarmente maldisposto ha creduto di ritrovarvi: L’amica geniale non è il racconto di uno stupro tirato troppo per le lunghe. Né, a mio avviso, un romanzo storico. È piuttosto una delle migliori rappresentazioni contemporanee di quello che René Girard, in Menzogna romantica e verità romanzesca, ha chiamato il “desiderio mimetico”. Lenù vede in Lila una mediatrice del desiderio, e più esattamente una mediatrice interna, cioè colei che le indica ogni volta l’oggetto da desiderare, e che ogni volta la surclassa nell’ottenerlo: si tratti del successo scolastico, dell’efficacia espressiva nella scrittura o della conquista della maturità sentimentale e sessuale. La “genialità” di Lila, insomma, appare a Lenù, che pure per circostanze contingenti si trova a dover percorrere strade molto diverse da quelle dell’amica, l’unica vera ragione di vita: è grazie a questo modello (che a un certo punto lei riesce persino a introiettare parzialmente) – e non certo grazie alle prediche della maestra Olivero – che Elena diventa adulta riuscendo a prendere quell’ascensore sociale che la porterà fuori dal rione.

Si potrebbe obiettare che anche Lila invidia a sua volta Elena, e ne elogia apertamente la genialità, ad esempio per i suoi successi scolastici, mentre lei è costretta a sposarsi per sollevarsi dalla miseria e sottrarsi dal potere di un padre violento e inetto. Ma ciò non contraddice la tesi di Girard, perché accade spesso, nel nostro tempo senza dei, che i soggetti implicati nel triangolo del desiderio si scambino le parti l’uno con l’altro, un una sorta di idolatria reciproca. Eppure, il lettore non ha mai dubbi su chi sia la vera amica geniale, enigmatica e insondabile anche per via della struttura narrativa del romanzo, che non prevede un narratore onnisciente, ma una sola voce narrante, omodiegetica, quella di Elena Greco, incapace per statuto di penetrare nella dimensione psichica profonda di Lila.

Si tratta di un tema per nulla banale perché distrugge nei suoi fondamenti l’illusione romantica su cui si fonda anche la metafisica moderna della soggettività: il Romanticismo ci ha abituato all’idea (sconosciuta in passato) secondo cui il desiderio è qualcosa di spontaneo, un’espressione del nostro essere più autentico che deve potersi manifestare da sé, senza l’aiuto di modelli, e che va assecondato esprimendo noi stessi nel modo più libero. Al contrario, i grandi romanzieri, Cervantes, Stendhal, Dostoevskij e Proust, dice Girard, ci riportano alla triste realtà ricordandoci che non possiamo mai fare a meno di mediatori e di modelli, soprattutto quando questi sono anche i nostri più diretti e temibili rivali. Forse l’originalità e la bravura della Ferrante (non colta dalle numerose e agguerritissime lettrici, in genere più interessate a un uso del testo in chiave immediatamente rivendicativa e attualizzante che non alla comprensione delle sue strutture narrative profonde) sta nell’aver trasposto questo meccanismo antropologico costitutivo in un orizzonte finalmente tutto femminile, in cui trova ampio spazio il tentativo di emancipazione dal “dominio maschile” e dalla brutale logica della violenza dell’uomo cui le donne sono state (e sono ancora oggi, in modo diverso) esposte.

Di tutto ciò, vale a dire della natura triangolare del desiderio e del doppio vincolo di odio e amore che esso genera, l’autrice è perfettamente consapevole. Ci sono pagine in cui il meccanismo è messo a nudo, in modo chiaro e persino troppo didascalico. E se c’è un difetto nella scrittura della “seconda” Ferrante è proprio la rinuncia al non detto, l’abbandono di certi stilemi che contraddistinguevano la prima maniera. Si dirà che era il prezzo da pagare per scrivere il grande romanzo popolare italiano: così come la geniale Lila deve scendere a compromessi col futuro marito, accettando l’odiato Solara come compare di fazzoletto, allo stesso modo Elena Ferrante rinuncia allo stile concentrato e denso di simbologie (psicanalitiche, per esempio) per accompagnare per mano il lettore, spiegandogli tutto, spiegandogli troppo. A farne le spese sono soprattutto quelle “smarginature”, quei moments of being in cui si rivela, pericolosamente, l’essere profondo delle cose e delle persone dietro le apparenze rassicuranti.

Gli estimatori della prima Ferrante si chiederanno se ne valesse davvero la pena, se cioè non fosse stato preferibile approfondire quella linea narrativa di ricerca e di esplorazione iniziata negli anni Novanta con L’amore molesto. L’obiettivo dell’Amica geniale, però, era quello di dare forma a un nuovo tipo di best seller all’italiana, a un prodotto di qualità medio/alta, stilisticamente curato (soprattutto nei primi due volumi della serie, poi con qualche slabbratura in più), e non si può negare che, in buona parte, l’autrice sia riuscita nel suo proposito.

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Nelle scorse settimane la RAI ha trasmesso le otto puntate della serie televisiva tratta dal primo volume dell’Amica geniale. Troppi sono i dettagli che non hanno persuaso neppure i più convinti estimatori del libro: la scelta (imposta, a quanto sembra, dalla produzione) di far dialogare i personaggi in dialetto napoletano; la voce fuori campo di Alba Rohrwacher (una cantilena inespressiva che tenta goffamente di imitare l’accento partenopeo producendo incongrue gutturazioni osco-umbre…); qualche acerbità (peraltro comprensibile) nella recitazione dei giovanissimi attori non professionisti. Si tratta però di dettagli, appunto.

Da un punto di vista strutturale, il lavoro degli autori della sceneggiatura (tra i quali figurano anche Lucio Piccolo e la stessa Ferrante) era invece facilitato dalla dimensione seriale già presente nel libro: il gioco delle somiglianze e delle agnizioni è anzi reso qui ancora più coinvolgente, per esempio nel passaggio dal secondo al terzo episodio, cioè dall’età dell’infanzia a quella dell’adolescenza di Lila e Lenù, grazie all’inevitabile cambiamento delle attrici che le impersonano. Il trascorrere del tempo è incarnato nei mutamenti fisici dei personaggi, e anche (in misura minore) nelle nuove, moderne idee di cui alcuni di loro si fanno portavoce, aprendo timidi spiragli verso una dimensione storica e sociale che resta però solo sullo sfondo.

È riuscito o no, Saverio Costanzo, a rendere il senso profondo del libro, e cioè a dar conto delle contraddizioni di quel meccanismo mimetico che regola i rapporti tra Lila e Lenù? Solo in parte. Prevalgono, nella riduzione televisiva, l’amicizia e l’affetto tra le due amiche, spesso riprese in abbracci ed effusioni sentimentali. La “cattiveria” e l’invidia di Lila emergono molto meno ed appaiono molto meno motivate, così come quella (più nascosta, quasi repressa) di Lenù.

Costanzo e gli sceneggiatori sono costretti troppo spesso ad affidarsi alla voce off (con gli effetti inconsapevolmente comici di cui dicevo) per spiegare quello che le immagini televisive non riescono ad esprimere, da sole; non sanno dare una forma efficace alle vertiginose “smarginature” di Lila; sono incapaci di rendere il ritmo serrato del libro, il dosaggio sapiente tra svolte della trama e pause riflessive; lasciando scadere, infine, con troppa disinvoltura, le scene più drammatiche in sceneggiate napoletane. E certo il dialetto, i questi casi, non serve ad ottenere quell’effetto distanziante che crea, nel libro, l’adozione pressoché totale dell’italiano. L’amica geniale televisiva, insomma, vorrebbe essere nelle intenzioni dei suoi autori una specie di Heimat italiana, il ritratto di una generazione lungo quasi un secolo di storia, ma finisce troppo spesso, senza volerlo, nei paraggi di Un posto al sole.

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