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Il femminismo del 99% è l’alternativa anticapitalista al femminismo liberale

intervista a Cinzia Arruzza

La femminista italiana Cinzia Arruzza è professoressa presso la New School of Social Research di New York e autrice del libro “Le relazioni pericolose: matrimoni e divorzi tra marxismo e femminismo”. Ha sostenuto lo sciopero internazionale delle donne negli Stati Uniti ed ha appena terminato di scrivere un Manifesto per un femminismo del 99% insieme a Nancy Fraser e Tithi Bhattacharya, che verrà pubblicato in autunno. In questa intervista le abbiano rivolto domande sulla relazione tra capitalismo e patriarcato e tra genere e classe, alla luce della nuova onda femminista su scala internazionale.

Qual è l’obiettivo e qual'è la tesi principale contenuta nel Manifesto per un femminismo del 99%?

Il femminismo del 99% è l’alternativa anticapitalista al femminismo liberale che negli ultimi decenni, viste le scarse mobilitazioni ed il basso livello di lotte in tutto il mondo, era diventato egemonico. Con l’espressione femminismo liberale ci riferiamo ad un femminismo incentrato sulle libertà e sull’uguaglianza formale, che ricerca appunto l’eliminazione delle diseguaglianze di genere, ma con strumenti che sono accessibili solo alle donne che appartengono all’elite. Pensiamo ad esempio al tipo di femminismo incarnato da donne come Hillary Clinton o al femminismo che in Europa sta diventando un alleato di molti governi in tema di politiche islamofobe “in nome dei diritti delle donne”, come spiega Sara Farris in un suo recente libro (In the Name of Women′s Rights: The Rise of Femonationalism).

Per essere chiari: il femminismo liberale è un tipo di femminismo che cerca l’uguaglianza di genere all’interno di una classe, quella privilegiata, lasciando però in dietro la grande maggioranza delle donne. Il femminismo del 99% è un’alternativa al femminismo liberale, poiché è apertamente anticapitalista e antirazzista: non separa l’uguaglianza formale e l’emancipazione dalla necessità di trasformare la società e le relazioni sociali nella loro totalità, non lo separa dalla necessità di superare lo sfruttamento del lavoro, il saccheggio delle risorse naturali, il razzismo, la guerra e l’imperialismo. È parte del transfemminismo, difende i diritti e le necessità delle lavoratrici sessuali, cerca alleanze sociali e politiche con tutti i movimenti che lottano per un mondo che sia migliore per il 99%.

 

Ritiene che il nuovo movimento delle donne che si sta sviluppando in tutto il mondo potrebbe essere il segnale di un ritorno più generale della lotta di classe?

Questa è la mia speranza e anche la mia scommessa. In primo luogo, questa nuova onda femminista è l’unica mobilitazione esistente a livello transnazionale, che unisce milioni di donne e uomini di tutto il mondo. Inoltre in alcuni paesi è già difficile ora distinguere chiaramente tra lotta di classe e movimento femminista: penso soprattutto all’Argentina, ma anche alla Spagna o all’Italia. Credo che coloro che sono sinceramente interessati ad un ritorno della lotta di classe, dovrebbero lasciare, una volta per tutte, gli atteggiamenti divisori e di disprezzo nei confronti della nuova onda femminista. Dovrebbero smettere di pensare che le mobilitazioni femministe son un’antitesi della lotta di classe o, nel migliore dei casi, un complemento esterno. Vorrei invitare a pensare al nuovo movimento femminista come ad un processo di radicalizzazione e politicizzazione nel quale la soggettività delle lavoratrici – molto spesso giovani, precarie, sotto pagate o non pagate, sfruttate e molestate sessualmente nei luoghi di lavoro – sta emergendo come una soggettività combattiva e potenzialmente anticapitalista.

 

Sembra che nelle lotte attuali e future della classe operaia le donne svolgano e svolgeranno un ruolo da protagoniste. Sta già accadendo?

C’è un fenomeno interessante da tenere in considerazione: stiamo registrando un aumento significativo di scioperi e mobilitazioni in luoghi di lavoro che rientrano nell’ambito della riproduzione sociale. Pensiamo agli scioperi delle maestre negli Stati Uniti (scioperi illegali, che stanno cambiano in modo significativo la dinamica del movimento operaio), lo sciopero delle lavoratrici della sanità in India o quello, sempre delle maestre, in Brasile. Si tratta di scioperi nei quali le lavoratrici sono maggioritarie ed rivestono un ruolo chiave. Sebbene non esista un vincolo esplicito tra gli scioperi e lo sciopero internazionale delle donne degli ultimi anni, credo che il movimento femminista stia dando forza a queste donne, dimostrando che la ribellione è possibile e necessaria.

 

Nelle mobilitazioni femministe (in Spagna o Argentina) risuona sempre di più lo slogan “Patriarcato e capitale, alleanza criminale”. Si sta riaprendo il dibattito sulla relazione tra oppressione di genere e capitalismo?

Credo che la ragione sia che stiamo pensando di nuovo ai fenomeni strutturali e alla complessità delle relazioni sociali, mentre negli ultimi decenni la maggior parte del femminismo era immersa nella cosiddetta "svolta linguistica", concentrandosi specialmente sulla questione della lingua, della cultura e delle relazioni interpersonali del potere. Da questo punto di vista, il fatto che le giovani attiviste e pensatrici femministe siano interessate a comprendere la connessione strutturale tra oppressione di genere e capitalismo, a capire le cause profonde della nostra condizione attuale, è un segnale molto positivo.

 

In vari articoli lei polemizza con la tesi dei « sistemi duali » che definisce il capitalismo ed il patriarcato come sistemi autonomi. Perché considera scorretta questa tesi e che conseguenze pratiche implica per il movimento delle donne?

Esistono varie versioni della teoria dei “sistemi duali”, con diverse conseguenze politiche. La versione più classica, influenzata dal femminismo materialista francese, finisce in un modo o nell’altro per concettualizzare l’oppressione razziale e di genere come sistemi di relazioni di sfruttamento; per tanto concettualizzano il sesso come classe. Sto semplificando troppo: la teoria ha avuto veri sviluppi negli ultimi decenni e ha raggiunto conclusioni più sfumate in alcuni autori. Ciononostante, le mie obiezioni sono di due tipi. Primo, se intendiamo il sesso come classe, dobbiamo necessariamente interpretare anche l’oppressione sessuale e di genere come antagonismi di classe e ciò di fatto esclude la possibilità di alleanze e lotte comuni tra donne e uomini. Per dirlo semplicemente: non farei un’alleanza con il mio padrone. In secondo luogo, se sesso, razza e classe esprimono tre sistemi autonomi che si intrecciano e combinano, non è chiaro perché lo facciano: qual è il motivo? Di fatto, la verità è che in certi casi le forme tradizionali di oppressione di genere entrano letteralmente in conflitto con gli interessi del capitale…

 

In contrapposizione alle teorie « duali » lei difende l’importanza del concetto di « riproduzione sociale » per una teoria femminista marxista...

Il modo in cui interpreto questa relazione – insieme ad autrici e autori come Nancy Fraser, Tithi Bhattacharya, Sue Ferguson, Sara Farris, David McNally e altre – si basa sulla nozione di riproduzione sociale. In poche parole, si riferisce alle attività ed al lavoro che implica la riproduzione biologica, quotidiana e generazionale, della forza lavoro. Per essere chiari: riprodurre la forza lavoro significa riprodurre le persone e la vita. Ciò non si limita alla mera sussistenza o alle necessità di sopravvivenza, ma si estende anche al soddisfacimento delle necessità più complesse e alla riproduzione delle abilità che contribuiscono a trasformare la forza lavoro in merce speciale che si può vendere sul mercato capitalista. Stiamo parlando quindi della socializzazione dei bambini, dell’educazione, ma anche della sanità e dei servizi sociali. La forza lavoro in questo tipo di attività è fortemente femminilizzata in due sensi: la stragrande maggioranza dei lavoratori (salariati e non salariati) sono donne e le loro condizioni di lavoro sono tra le più sfruttate.

 

E in che modo l'oppressione e lo sfruttamento sono legati alla sfera della riproduzione sociale?

La chiave per capire che cosa ha a che fare la riproduzione sociale con l'oppressione di genere (e in parte con l'oppressione di razza) è che la riproduzione sociale – sotto il capitalismo – è necessariamente subordinata alla produzione in funzione del profitto.

Il paradosso è che il capitalismo ha bisogno di una riproduzione sociale e che è relativamente funzionale, ma non vuole pagarne i costi. Soprattutto perché tutte le attività di riproduzione sociale hanno bassa tecnologia e lavoro intenso, il che significa che sono costose.

Il modo in cui i capitalisti (e gli stati) riescono a mantenere i costi più bassi possibile varia, ma possiamo identificare alcuni fenomeni comuni: l'aumento dell'uso di lavoratori migranti mal pagati e non organizzati in settori privatizzati (ad esempio, migranti che si prendono cura di persone a carico o anziani); i tagli alla spesa sociale e ai servizi sociali che costringono le donne a fare questo lavoro gratuitamente a casa; la commercializzazione degli aspetti più redditizi del lavoro di riproduzione sociale – catene di ristoranti, lavanderie, ecc. – usando, ancora una volta, la manodopera migrante a basso costo.

 

Possiamo concludere che lo sfruttamento di classe, l’oppressione di genere e di razza, formano una totalità complessa all’interno del capitalismo…

Ci sarebbe molto altro da aggiungere rispetto a questi processi e la teoria della riproduzione sociale non spiega tutto ma ci fornisce gli strumenti teorici per vedere come fenomeni apparentemente disconnessi si svolgono in un contesto di relazioni sociali di produzione e riproduzione, che imprigionano la vita delle persone, limitano le possibilità a disposizione, organizzano e restringono i tempi delle nostre vite.


*Fonte articolo: http://ctxt.es/es/20180815/Politica/21197/Cinzia-Arruzzo-feminismo-intel...

Traduzione a cura di Marco Pettenella.

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