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conness precarie

Il reddito che abbiamo e quello che ci manca: poche certezze e alcune domande

di ∫connessioni precarie

Il governo gialloverde ci ha dato il suo reddito e probabilmente è anche l’unico che poteva darci. Chi, anche in mezzo allo scontento del nostro movimento, ha coltivato aspettative diverse ha semplicemente dimenticato un vecchio suggerimento utile a chi voglia varcare senza problemi una porta aperta: tenere presente che gli stipiti sono duri. Lavoro comandato più tintinnio di manette e qualche centinaio di euro: ecco in breve la formula del reddito di cittadinanza italico. A parte le perversioni manettare di alcuni esponenti di questo governo, si tratta di una versione del reddito minimo in linea con la logica di fondo dell’Hartz IV tedesco, dell’RSA francese o del JSA britannico: «sostenere e pretendere», affinché il divano sia sempre troppo scomodo per restarci seduti. Il sostegno infatti è minimo, mentre le pretese sono tante e il reddito si rivela per quello che è: la forma neoliberale del governo di poveri e precari sulla soglia dell’indigenza, della loro mobilità e occupabilità. Che il reddito di cittadinanza concesso dal governo ne sia un’espressione particolarmente feroce lo hanno detto in molti e con valide argomentazioni. Non ci dilungheremo dunque in un’analisi delle singole misure coattive, disciplinanti, poliziesche o sull’impianto moralistico che sottende il decreto, per altro coerente con il rigurgito di sani valori «borghesi» che appesta l’aria di questo paese e non solo.

In una fase in cui il populismo del capitale si incunea nella governance neoliberale europea irrigidendo il comando su un lavoro sempre più povero, non possiamo che stare dalla parte di chi, come Non Una di Meno, reclama un reddito incondizionato che non sia il reddito della miseria che ci offrono Di Maio e i suoi amici, ma uno strumento di autodeterminazione. Le nostre rivendicazioni non possono però evitare di fare i conti con i fatti e i fatti dicono che decine di migliaia di precarie e precari chiederanno a questo governo i soldi che promette: pochi, sporchi e, soprattutto, subito. Si può naturalmente biasimarli per non aver meditato a sufficienza sui classici, oppure si può dare ascolto alla domanda che da troppo tempo risuona tra chi i conti deve farli con un salario intermittente e da fame: esiste un altro modo per riprodurre la propria vita?

Proprio perché è una domanda da prendere sul serio, crediamo che occorra un sussulto di realismo nell’articolare la questione del reddito. Realismo non significa cercare di rendere più accettabile questo reddito, intervenendo e migliorando i più inverecondi aspetti della legge. Questo reddito è irriformabile, così come irriformabile è la logica neoliberale che lo pervade. Né d’altra parte essere realisti può davvero risolversi nel chiedere l’impossibile, o quantomeno nella pretesa che l’impossibile venga attuato per decreto-legge. Essere realisti significa interrogarsi sulle condizioni di possibilità di un reddito che non sia una semplice mancia di coazione al lavoro. Se, come è stato scritto, la realtà è sì un compito ma anche un’invenzione, quello che in primo luogo dobbiamo chiederci è: visto che questo è il reddito della miseria che abbiamo, a chi possiamo chiedere il reddito che ci manca?

A quale Stato strappiamo il reddito che vogliamo? È ormai dimostrato che si trova sempre un governo che, salvo rettifiche successive, promette un reddito. La domanda è però: c’è uno Stato che possa realisticamente essere la controparte di questa lotta? C’è stato un tempo in cui lo Stato era uno Stato fiscale, ma di quel tempo sono rimasti in vita soltanto i ricordi che per qualcuno sono diventati motivo di nostalgia. C’è chi si balocca maldestramente con un sovranismo di sinistra, malattia senile di personaggi equivoci affetti da accessi di malinconia. Lasciando da parte le oscurità dell’inconscio, il fatto lampante è che lo Stato fiscale è ormai a brandelli, smantellato e messo sotto scacco dai movimenti sovrani del capitale sul mercato mondiale. Esiste semmai sul piano globale uno «Stato sommerso» che agisce in controluce ma sempre a maggior gloria del capitale: eroga agevolazioni finanziarie e fiscali, semplifica e snellisce l’apparato giuridico e amministrativo, partecipa e sostiene la nuova configurazione logistica della produzione e della circolazione delle merci, riterritorializza lo spazio per facilitare la produzione e l’estrazione di valore. È uno Stato che non si pone più il problema di garantire l’equilibrio economico, ma ha solo l’obiettivo di attrarre disperatamente capitali, promettendo che nel lungo periodo lo sviluppo correggerà gli squilibri. Nel lungo periodo, però, i poveri non saranno tutti morti, ma saranno ancora tutti qui a dover fare dei salti letteralmente mortali per vivere, perché qui e ora lo Stato da sommerso si fa sommesso, prono e ricurvo di fronte alla sfacciata protervia del capitale. Questo Stato non può essere il garante di nessun universale, tanto meno dell’universalità del reddito.

Il reddito che abbiamo mostra, caso mai ce ne fosse ancora bisogno, che lo Stato del piano e della redistribuzione è semplicemente lo spettro di un passato che non ritorna. E vivere nelle case infestate dai fantasmi non è mai stata una buona idea. Lo Stato ha da tempo cessato di difendere il presente dal futuro. A partire dalla sua crisi fiscale negli anni Settanta, il suo orizzonte temporale è cambiato: opera just in time, coerentemente con il tempo logistico scandito dallo spartito del capitale globale. Il futuro sprofonda così nell’incertezza, che la paranoia algoritmica del capitale pretenderebbe di controllare. Esso però ritorna puntualmente a galla come crisi che accompagna ormai da tempo il capitalismo. Il ridimensionamento delle ambizioni temporali dello Stato è il nuovo rischio d’impresa che il capitale si è assunto per aggirare le rigidità che ostruivano il processo di accumulazione. È un rischio solo apparentemente calcolato, perché la compressione dell’orizzonte temporale dello Stato è l’azzardo necessario che il capitale deve compiere per soddisfare una brama di accumulazione che si dispieghi a velocità incontrollata nello spazio.

Il reddito di cittadinanza si inserisce in questa ristrutturazione complessiva dello Stato e, nello specifico, del welfare. L’introduzione del reddito approfondisce infatti la transizione in atto ovunque verso un regime di workfare e la tendenza a depotenziare gli strumenti di protezione sociale per chi perde il lavoro. La compatibilità al momento garantita tra reddito e Naspi conferma questa tendenza anziché arrestarla, se non altro perché l’importo della Naspi dipende dai contributi versati dal percipiente, in maniera tale che le imprese siano per lo più esentate dai costi di riproduzione della precarietà. D’altra parte, se all’interno di una famiglia che beneficia del reddito vi è un membro che percepisce la Naspi, l’importo del reddito verrà rimodulato al ribasso fino ad annullarsi se il sussidio di disoccupazione determina lo sforamento della soglia ISEE prevista dal decreto. Si tratta di frizioni che potrebbero essere mantenute oppure superate facendo del reddito di cittadinanza la misura unica o predominante di un welfare vessatorio e che strizza l’occhio alle esigenze dell’impresa. Più che far incontrare la domanda di lavoro con l’offerta, la misura appena varata dal governo subordina la seconda alla prima, concedendo surrettiziamente alle imprese di servirsi di un’integrazione al salario per assumere on demand forza-lavoro povera che, non appena diventerà superflua, verrà rigettata nel girone infernale del reddito. Se tutto ciò non bastasse, alle imprese che assumono un beneficiario del reddito lo Stato garantirà agevolazioni fiscali fino a 18 mesi, a dimostrazione che la giustizia proprietaria orienta la scelta dei governi e non fa sconti: all’elargizione di reddito a precari e precarie deve corrispondere non solo un rafforzamento del comando sul lavoro, ma perfino un risarcimento in denaro ai padroni. È questo il senso delle cosiddette politiche attive del lavoro, in cui tutte le forme europee di reddito rientrano. Come l’Hartz IV, anche il reddito italiano si prefigge l’obiettivo di sottrarre i poveri alla disoccupazione, senza però l’ambizione di sottrarli alla povertà.

È bene allora prendere atto che un welfare distinto dal workfare semplicemente non è più possibile, non perché siamo tornati all’Ottocento, o perché la loro sovrapposizione sia diventata «giusta», ma perché la stessa riproduzione della nostra vita non si distingue dal lavoro così come non ne è più completamente determinata. Questo interregno fatto di vita e di lavoro non è il morboso purgatorio che stiamo attraversando per poi tornare ai fasti gloriosi del vero welfare. Abbiamo speranza e intenzione di andare da qualche altra parte e non semplicemente di tornare indietro. In questo interregno, dunque, in che cosa può consistere l’universalismo invocato da chi reclama un reddito «più universale», all’altezza dell’equità e della libertà cui aspira? Dopo anni passati a criticare logiche gerarchiche e segreganti camuffate di universalità, questo ritorno all’universalismo lascia perplessi, specie in una fase in cui su fronti diversi il movimento delle donne e i movimenti dei migranti stanno facendo valere la loro differenza. Più che sul terreno accidentato dell’universale, ci pare allora necessario affrontare il dilemma del reddito dal punto di vista di una libertà che viene negata, per approfondire le divisioni e le frammentazioni del presente.

Sotto questo aspetto, il reddito di cittadinanza avanza una pretesa di coazione della libertà, entro cui si inquadra la certezza della coazione al lavoro. È comando sulla vita nei suoi interstizi di non lavoro: progetti formativi, corsi di orientamento, gite regolari ai Centri per l’Impiego, servizi gratuiti di pubblica utilità per il Comune scandiranno l’esistenza di chi percepisce il reddito fino a quando l’«offerta congrua» non imporrà di accettare un lavoro povero, ricattato e magari ad alcune centinaia di chilometri di distanza da casa. Il datore di lavoro si prenderà poi tacitamente in carico il compito di prolungare, attraverso lo sfruttamento, il regime di coazione per l’ex beneficiario del reddito. L’ossessione per il divano deriva in fondo dalla paura che qualcuno, da qualche parte, possa essere libero dalla precarietà. Le festose dichiarazioni con cui Di Maio ha annunciato che con il reddito la domanda di lavoro, di ogni lavoro in qualunque parte d’Italia, non rimarrà più inevasa ne è la dimostrazione, oltre che motivo di soddisfazione per chi proprio non riesce a digerire che un lavoro possa essere rifiutato. Che i promotori del reddito gialloverde nutrano un certo fastidio per la libertà è confermato dal fatto che al momento esiste una consistente quota di forza-lavoro disposta, senza la coazione del reddito, a muoversi sul territorio italiano per trovare un lavoro, ma a cui il governo impedisce di muoversi liberamente. Parliamo naturalmente delle donne e degli uomini migranti che vivono tra la gabbia di un sistema di protezione internazionale sempre più brutale e meno accogliente e l’eterno ricatto della legge Bossi-Fini. Niente reddito per chi sfida tutti i giorni i sacri confini patri, a meno di non avere i titoli da lungo soggiornante, che comunque non esentano dalla ricerca del lavoro dato che il reddito di cittadinanza non vale certo una carta di soggiorno.

Di fronte al paradosso di un reddito che punta a impoverire ulteriormente il lavoro, dobbiamo chiederci se il reddito che ci manca può produrre spazi di iniziativa politica contro il reddito che abbiamo e la logica neoliberale di cui è intriso. Una volta che l’inganno del reddito gialloverde si svelerà da sé, davvero una moltitudine sorgerà per chiederne conto? Davvero la promessa di un reddito finalmente «più universale» aprirà la strada per la rivolta contro il lavoro? Lo spettro della speranza si aggira per il movimento, ma sottovaluta evidentemente i dispositivi di individualizzazione di cui il reddito, a partire dall’impianto pattizio su cui è costruito, può servirsi per approfondire la frammentazione della forza-lavoro. L’impressione è che a furia di inseguire il mito dell’universalità del reddito si sia persa di vista la domanda con cui invece occorre fare i conti: può il reddito stabilire il perimetro di una parte contro un’altra? Oppure quella parte, che è la nostra parte, non ha al momento le forze per fare del reddito un terreno di scontro e, sottoposta alla pressione di una povertà che non lascia scampo, dovrà invece continuare a battere cassa dal governo? Sempre pochi e sporchi, ma comunque subito, quei soldi danno da mangiare più di un reddito universale che non abbiamo, che non c’è e che nessuno è disposto a darci. A meno di non riportare indietro le lancette della storia, che però non si lasciano manomettere a piacimento. D’altra parte, ci era sembrato di intendere che il passato rischia sempre di trasformarsi in un incubo che pesa sulla mente dei vivi. Nessuno Stato penserà al nostro presente né al nostro futuro. Perseverare negli incubi del passato ci sembra un lusso che non possiamo permetterci. Specie se si dipende da un reddito di cittadinanza.

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