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rinascita

La batosta abruzzese e il resto del mondo

di Piotr

In Abruzzo ha vinto il Centrodestra. Attenzione! Non la Lega in quanto partito al governo col M5Stelle, ma la Lega in quanto ormai partito leader del Centrodestra. Il nuovo presidente della Regione Abruzzo sarà infatti il fratello d’Italia Marco Marsilio.

Ecco i risultati di questo raggruppamento: Forza Italia 9,1%, FdI 6,44%, Lega 27,54.

Sia Lega che FdI hanno raddoppiato i consensi.

Il Carroccio guadagna cinquantamila voti assoluti rispetto alle politiche del marzo scorso mentre i 5Stelle ne perdono duecentomila fermandosi al 20,2% dei voti validi contro il 39,9 per cento ottenuto alle politiche.

Ora, possiamo sbizzarrirci sulla debolezza dei 5Stelle nelle amministrative rispetto alle politiche o sul fatto che, per l’appunto, queste sono amministrative e non politiche, ma perderemmo di vista il dato saliente, ovvero le contraddizioni intrinseche di questo governo e il fatto che finora hanno penalizzato il Movimento 5 Stelle e premiato la Lega.

Avevo cercato di analizzarle, subito dopo il varo del governo, e mi sono così preso molte sgridate sia da chi riponeva in esso fiducia sia da chi lo osteggiava. Un en plein, insomma.

In sintesi giudicavo il governo Conte come il risultato di una manovra diretta dal presidente Mattarella per – passatemi l’espressione – “normalizzare l’esito del voto populista”.

Scrissi che questo non sarebbe stato un governo di cambiamento ma di attesa di input dalla (caotica) congiuntura internazionale. O, possiamo anche dire, un governo a sovranità limitata; limitata dal ruolo dirigista del Quirinale (meno esagitato di quello di Napolitano, più discreto e poggiante all’interno del governo sui ministri Tria e Moavero Milanesi) e limitata dalle intrinseche tensioni tra le sue componenti che si sarebbero approfondite a causa del progredire della crisi sistemica e dei suoi effetti sia interni che internazionali (e una riprova la trovavo nel fatto che nel “Patto di governo” non si faceva cenno alla politica internazionale, cioè al punto dirimente di ogni crisi sistemica, e quindi globale, come quella che stiamo vivendo da decenni).

Prevedevo anche che questa situazione avrebbe favorito una campagna elettorale permanente del leader della Lega, Matteo Salvini, basata sul securitarismo. Una campagna a costo zero e di cui denunciavo gli inevitabili e preoccupanti risvolti e le inevitabili e preoccupanti ricadute culturali (razzismo, paura/rifiuto del diverso e dell’alieno, revanscismo, eccetera). E temevo infine che il M5Stelle avrebbe subito l’iniziativa di Salvini.

Il M5Stelle ha infatti accettato, con molti mal di pancia, l’attivismo securitarista e monocorde del leader della Lega, per “strappare” fin qui due risultati: la riforma della legge Fornero e il reddito di cittadinanza.

In realtà il primo risultato era nei piani anche della Lega mentre il secondo, in assenza degli effetti positivi derivanti da una rottura col neoliberismo e l’austerity di Bruxelles, rischia di rimanere quello che è, cioè un provvedimento contemplato da quell’ordoliberismo i cui campioni in carica siedono proprio a Berlino (le “leggi sui poveri” hanno addirittura origine con l’inglese Elisabetta I e il primo reddito di cittadinanza in Europa è il “Sistema di Speenhamland” del 1795 – consiglio di leggere “La grande trasformazione” di Karl Polanyi per capire i pochi pro e i tanti contro di quel sistema).

Certo, sia la riforma alla legge Fornero sia il reddito di cittadinanza hanno un valore simbolico di un certo peso, perché sono un’inversione di tendenza: per la prima volta da decenni si tolgono un po’ di euro ai ricchi per darli ai poveri. Una cosa che i liberal e la sinistra italiana ritengono inconcepibile (e il miserrimo 11,14% del PD in Abruzzo riflette questo sgomento). Tuttavia sono anche provvedimenti che rischiano di rimanere l’abbozzo di una buona volontà se rimangono irregimentati in una visione politico-economica che non riesce a fare il salto di qualità.

Ma la visione della Lega questo salto non può compierlo, perché essa è fondamentalmente limitata dall’orizzonte liberista. Essendo poi la UE la risposta liberista dei padroni del vapore europei alla crisi sistemica (iniziata nel 1971), essendo la finanziarizzazione ancora oggi il perno di questo tentativo di galleggiare sulla crisi e di sfruttarla, ed essendo la costruzione della UE e dell’Euro stata via via plasmata fedelmente proprio su questi obbiettivi, il “sovranismo” della Lega è, at the end of the day, ovvero alla fin delle fiere, semplicemente la rivendicazione di un ruolo non subalterno a chi concepisce la UE come uno strumento per i propri esclusivi interessi, ovvero la Francia e la Germania.

La miserabile querelle sui migranti tra Roma e Parigi (in cui tra l’altro Parigi aveva formalmente torto marcio oltre che impressionanti scheletri nell’armadio, come gli oltre diecimila migranti detenuti nei suoi Territori d’Oltremare o come l’inferno di Calais) era ed è un aspetto di questo conflitto inter-europeo ben più ampio. Un conflitto che si connette con quello tra le diverse linee geostrategiche imperiali che si sta svolgendo a Washington dal secondo mandato di Barack Obama ad oggi ed è stato esacerbato dalla vittoria di Donald Trump.

In questo conflitto la Lega ha preso le parti di Trump contro i liberal cosmopoliti clintonoidi di Washington e i loro vassalli a Parigi, Berlino e Bruxelles e con questa alleanza Salvini cerca di avere più peso negoziale in Europa.

E’ ovvio che entrano in gioco anche affinità ideologiche ma è altrettanto ovvio che è il momento storico che fa e accoppia personaggi come Salvini e Trump.

Ora, se si pensa che il terreno di gioco sia delimitato esclusivamente dal sistema capitalistico e dai conflitti tra segmenti contrapposti di élite, questa mossa potrebbe anche essere applaudita.

Ma se si pensa invece, come penso io, che i rapporti sociali capitalistici non permettano soluzioni alla crisi e ai suoi conflitti se non al più parziali, momentanee e generatrici di contraddizioni più ampie, e se si pensa che i conflitti intercapitalistici siano legati a quelli sociali tra dominati e dominanti, se si pensa che l’exorbitant privilege del Dollaro sia sostenuto dall’esorbitante dominio politico-militare-culturale dell’Impero e che quel privilegio e quello delle élite che spremono ricchezza da tutto il resto del mondo e da ogni altro strato sociale siano due facce della stessa medaglia e, infine, che questa medaglia abbia impresso un teschio da un lato e la Livellatrice con la falce dall’altro, allora l’applauso bisogna negarlo.

Perché questo applauso andrebbe non a un sovranismo inteso come rivendicazione da parte del popolo dell’esercizio della democrazia e dell’autodeterminazione del proprio destino in armonia con quello degli altri, ma a un nazionalismo dalle caratteristiche torve. Un nazionalismo inoltre incapace di mantenere alcunché, perché non è altro che uno degli aspetti – probabilmente oggi il più attuale – della risposta capitalistica alla crisi sistemica (le liberali Germania e Francia non sono meno nazionaliste dell’Italia salviniana e delle nazioni partecipanti al Gruppo di Visegrád, il resto sono fanfaluche ideologiche alimentate da clerici e media politicamente corretti).

Delle nefaste ricadute culturali/antropologiche di questo nazionalismo sulla società già abbiamo parlato. Ad esse l’immensa ipocrisia buonista della sinistra cosmopolita non riuscirà ad opporre nessun argine. Anzi, fungerà da moltiplicatore.

Perché in realtà stiamo parlando degli stessi rabidi reazionari che si sono uniti in comunità di sensi e di intenti per appoggiare il golpista venezuelano Guaidó e per celebrare in occasione della “Giornata del ricordo” non una denuncia contro le aggressioni e i loro tragici e crudeli effetti, ma un livore anticomunista come non si era mai visto prima: il nazionalsocialismo era in fondo meglio del comunismo; questo è stato il messaggio.

E in effetti il fascismo prima o poi torna utile, in Venezuela come in Ucraina o in Brasile.

E qui, per fortuna, mentre la Lega se la faceva col PD, con LeU, con la Meloni e con Berlusconi, le contraddizioni tra i due alleati di governo sono venute al pettine. Qui, per fortuna, l’antifascismo (reale e non di maniera) e un certo benemerito istinto antimperialista del M5Stelle sono tornati a galla. Prima con un tentativo di condurre il fenomeno migratorio e i suoi drammi alle radici di sfruttamento e di imposizione militare (tentativo cavalcato da Salvini solo nella stretta misura in cui era funzionale al proprio discorso). Poi con il rifiuto netto di riconoscere il golpista “appointed” da Trump in Venezuela.

Posizioni lodevoli anche se parziali e forse a volte confuse, non compiute e che testimoniano che la ricerca di una linea politica ed economica (e anche culturale) da parte del Movimento 5 Stelle non è ancora conclusa.

Possiamo esserne dispiaciuti ma almeno una ricerca è in corso e non ci viene riproposta la ripetizione di rosari che hanno solo condotto a dove siamo.

Adesso aspettiamo di vedere cosa succederà con le trivelle e con il TAV.

Salvini, con la sua vittoria di centrodestra in Abruzzo, ha messo le mani avanti, ha fatto sapere come potrebbe andare a finire.

Tutti sono stati avvisati.

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