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sbilanciamoci

Euro al capolinea? La vera natura della crisi europea

di Francesco Garibaldo, Mariana Mortágua, Riccardo Bellofiore

Pubblichiamo l’introduzione del volume di Bellofiore, Garibaldo e Mortágua “Euro al capolinea? La vera natura della crisi europea”: un contributo rigoroso e appassionato al dibattito sull’Europa e la sua crisi

Questo libro propone un’analisi della crisi combinando una prospettiva marxiana e una prospettiva keynesiano-finanziaria. Entrambe sono interne a una visione strutturale e di lungo periodo delle dinamiche capitaliste. Ogni crisi scoppia a causa delle contraddizioni di fattori idiosincratici, gli stessi che ne spiegano l’ascesa. Stiamo vivendo la crisi non di un generico neoliberismo o di una vuota finanziarizzazione, ma di un money manager capitalism, un capitalismo dei gestori finanziari, che è stato costruito sulla centralizzazione senza concentrazione, su nuove forme di governo societario, sulla concorrenza distruttiva, sull’aumento dei prezzi delle attività finanziarie, e sul consumo a debito. Un mondo che è stato in grado di approfondire in forme nuove il vecchio sfruttamento, di procurarsi internamente la domanda, e di presentarsi come in grado di crescere dentro una Grande Moderazione apparentemente sempre più stabile. Questo mondo può essere descritto come un keynesismo privatizzato di natura finanziaria, basato su una politica monetaria e su una domanda autonoma, entrambe di tipo nuovo: una configurazione che alla fine si è rivelata insostenibile per ragioni intrinseche alla sua costituzione. La sua crisi sta evolvendo da una Grande Recessione verso una Depressione Minore.

Dopo un paio di capitoli che riassumono le caratteristiche originali del neoliberismo e danno al lettore un quadro generale della crisi mondiale ed europea dal 2007-2008, nei capitoli successivi discuteremo di alcune specificità della crisi europea: essa non fu dovuta principalmente agli squilibri nella bilancia delle partite correnti, né ai disavanzi dei governi, e neanche alla moneta unica. Presteremo quindi attenzione ai cambiamenti nella finanza e nell’industria degli ultimi 15-20 anni: vedremo come i cosiddetti squilibri finanziari vengono affrontati all’interno della zona euro – cioè un’unione monetaria dotata di un unico sistema di pagamento; come la ristrutturazione della produzione tedesca abbia creato una ‘catena del valore’ produttiva transnazionale; e come si sia stabilita una nuova geografia di relazioni industriali e commerciali tra, grosso modo, il Centronord e il Sudovest del continente europeo. Trarremo, poi, alcune conclusioni preliminari sul tema controverso se l’abbandono della moneta unica costituisca una via d’uscita auspicabile o praticabile dalle difficoltà attuali.

Pensiamo che per affrontare la questione sia necessaria una critica preliminare ma approfondita delle analisi della crisi europea più diffuse negli ambienti postkeynesiani e tra gli economisti alternativi. Gli approcci eterodossi sottolineano con insistenza gli errori di costruzione nell’architettura istituzionale dell’Unione economica e monetaria (Uem): errori che hanno consentito alla Germania e ai suoi ‘satelliti’ di insistere in una strategia neomercantilistica, e di accumulare enormi avanzi delle partite correnti, a cui corrispondevano flussi di capitale verso la periferia che consentivano a quest’ultima di finanziare a debito i propri disavanzi. La crisi dell’euro viene ricondotta principalmente agli squilibri nelle bilance commerciali, a loro volta causati dagli scarti nei prezzi relativi che si sono accumulati negli anni e che hanno portato a strategie di crescita distinte nei vari paesi dell’area: una crescita trainata dalle esportazioni nel nucleo forte, e una crescita trainata dal debito – spesso incentrata su consumi e investimenti immobiliari – alla periferia.

In comune con la maggior parte degli approcci eterodossi, accettiamo anche noi, come scenario di riferimento, che 1) i debiti pubblici sono la conseguenza e non la causa dei problemi europei e che 2) il processo di integrazione asimmetrica ha interagito con la crescente finanziarizzazione nell’approfondire la divergenza tra le diverse strutture economiche nazionali e nel definire diverse modalità di esistenza nella Uem. Siamo anche d’accordo che la strategia di una deflazione profonda dell’economia reale attraverso politiche di austerità e riforme del mercato del lavoro costituisce una scelta politica disastrosa che, alla fine, potrebbe diventare la causa ultima dell’evento che si sta cercando di evitare fin dall’inizio: il crollo della moneta unica e dell’Unione. Questo non significa, tuttavia, che tutto sia stato detto sulla crisi dell’euro: non solo da parte degli orientamenti dominanti, ma anche da parte di quelli eterodossi. Se i neoclassici sono lontani dal comprendere e, ancora più importante, dall’incorporare tutto ciò che è andato storto all’interno dei loro modelli, dall’altro versante, quello di solito (e troppo genericamente) etichettato come postkeynesiano, ci sono aspetti che vale la pena di mettere in discussione, e altri che meritano di essere osservati con maggiore attenzione e che conducono a conclusioni differenti.

Entrambe le impostazioni ignorano alcune caratteristiche che definiscono, in generale, le economie monetarie contemporanee. Trascurano inoltre alcune particolarità delle aree valutarie: 1) in un’unione monetaria, che ha in comune il sistema dei pagamenti oltre che la moneta, e dove le riserve sono generate endogenamente dalla creazione di credito, non è possibile che si verifichi una ‘normale’ crisi della bilancia dei pagamenti; 2a) una distinzione deve essere stabilita tra finanziamento e risparmio, perché, anche se è vero che il sottoconsumo in alcuni paesi in avanzo viene compensato da disavanzi delle partite correnti di altri, ciò non significa che l’investimento e il consumo nei paesi in disavanzo non possano essere finanziati secondo modalità alternative, modalità che sono indipendenti dai saldi delle bilance delle partite correnti; 2b) la visione secondo cui gli avanzi commerciali sono all’origine degli squilibri finanziari dei paesi in disavanzo implica una relazione causale che si muove dalla bilancia commerciale alla bilancia dei movimenti di capitale, e questa direzionalità sembra abbastanza improbabile in un mondo in cui le transazioni commerciali catturano solo una piccola frazione di tutte le operazioni tra le giurisdizioni, ognuna delle quali necessita di un finanziamento; 3) le partite correnti, che registrano flussi netti, escludono i cambiamenti sottostanti nei flussi lordi e il loro contributo allo stock di debito esistente, tra cui tutte le transazioni che coinvolgono esclusivamente atti di compravendita di attività finanziarie.

Se vogliamo affrontare davvero la crisi europea e dell’euro dobbiamo trattare anche delle divergenze strutturali che ne caratterizzano l’economia. Approcci troppo ‘macro’ non soltanto perdono di vista ciò che può dire un’analisi monetaria centrata sul credito in merito agli squilibri delle partite correnti nella zona euro e più in generale perché l’uscita dall’euro è la risposta alla domanda sbagliata sulle dinamiche finanziarie europee; essi non mettono neanche in adeguata evidenza le diversità nei processi di riorganizzazione e ristrutturazione industriale degli ultimi decenni, o il ruolo delle politiche in questi processi strutturali, perché si limitano ad aggregare i paesi del Sud (più l’Irlanda) contro i paesi del Nord (la Germania e i suoi satelliti), a dispetto delle differenze nei vari modelli. Il processo di ristrutturazione industriale in Europa che si è dipanato tra il Trattato di Maastricht e l’esplosione della crisi globale è fondamentale nella nostra analisi, e la Germania vi ha giocato un ruolo chiave. La maggior parte dell’incremento delle relazioni commerciali della Germania è stato verso l’Europa centrale e orientale, non verso il ‘Sud’. La natura di questo processo a livello europeo, nel quadro generale delle politiche di deregolamentazione finanziaria e delle nuove caratteristiche istituzionali del commercio mondiale, è al cuore della crisi europea, e va messa in primo piano.

Le radici dei cambiamenti del panorama europeo devono essere riportate anche alle differenti politiche industriali che sono state praticate nelle varie regioni ‘interne’ all’area e che hanno prodotto una variegata composizione del settore industriale, dove possiamo identificare dispersione geografica delle catene del valore transnazionali, politiche tecnologiche divergenti, articolazione gerarchica delle dinamiche dei settori industriali e dei relativi outsourcing. Per comprendere l’Europa di oggi e la sua crisi dovremo quindi anche prendere in considerazione la composizione geografica e tecnologica del commercio intraeuropeo, oltre che le dinamiche monetarie e finanziarie.

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