Print Friendly, PDF & Email

soldiepotere

Sanders, Corbyn, Zingaretti. Trova l’intruso

di Carlo Clericetti

Nel disastro della sinistra in questi ultimi anni, con caratteristiche più o meno simili in tutti i paesi avanzati, spiccano alcune eccezioni. Alexis Tsipras in Grecia e Antonio Costa in Portogallo sono riusciti ad andare al governo dopo campagne elettorali anti-austerità e prefigurando politiche fortemente alternative a quelle attuate in Europa. Poi il primo ha dovuto cedere al “waterboarding economico” (la similitudine con la nota pratica di tortura è di Yanis Varoufakis) e del suo programma non è rimasto nulla: secondo i sondaggi, non resterà al governo dopo le prossime elezioni. Il secondo al momento ha il vento in poppa, nonostante che la politica economica portoghese non sia cambiata, se non per alcuni provvedimenti in favore del lavoro e dei meno abbienti somministrati però in dosi quasi omeopatiche. Ma, anche grazie al buon momento della congiuntura, sono bastati per dare l’impressione che la musica fosse diversa.

Negli Stati Uniti Bernie Sanders è stato il fenomeno inaspettato della scorsa campagna presidenziale. Un anziano senatore (oggi ha 77 anni) di un piccolo Stato, mai apparso prima alla ribalta delle cronache nazionali, è riuscito a mobilitare folle di sostenitori. I sondaggi lo davano vincente su Trump, ma per l’establishment del Partito democratico era decisamente troppo radicale: lo hanno ostacolato in tutti i modi e i “grandi elettori”, determinanti nel decidere la nomination, si sono schierati in grande maggioranza con la guerrafondaia Clinton, che dell’establishment è una perfetta rappresentante.

Sanders si è definito “socialista”, cosa che per le classi dominanti è equivalente a un pericoloso sovversivo. E ha parlato di progetti inusitati (per l’America), come un servizio sanitario universale e l’università gratis. Insomma, una rottura netta con i programmi e la cultura del Partito democratico degli ultimi decenni.

Simile la vicenda di Jeremy Corbyn in Gran Bretagna. Ha conquistato il Partito laburista rovesciando la dottrina Blair della “Terza via”, e lo ha conquistato dal basso, anche lui suscitando una partecipazione di militanti, soprattutto giovani, come non si vedeva da anni. Il tutto a dispetto della maggioranza dei deputati e dei dirigenti del partito, che infatti hanno tentato di liquidarlo sfiduciandolo, solo per vederlo rieletto con più forza di prima. “Con lui non vinceremo mai”, dicevano. Ma alla prima prova elettorale Corbyn ha ottenuto un aumento dei voti che i laburisti non vedevano dal 1945, arrivando al 40%, ad una incollatura dal 42,5 dei conservatori.

Insomma, i leader di sinistra che hanno vinto o sono comunque riusciti a mobilitare il “loro popolo” si sono tutti presentati con programmi di rottura rispetto al pensiero dominante negli ultimi decenni (che poi chi è andato al governo li abbia attuati o no è un altro discorso). E d’altronde anche in Italia, alle ultime elezioni, hanno vinto i partiti cosiddetti “anti-sistema” (anche qui, lasciamo stare se poi sia vero o no).

Queste riflessioni vengono in mente in questi giorni mentre appaiono nelle televisioni i candidati alla segreteria del Partito democratico, un altro di quei partiti che si definiscono di sinistra – anzi, di centrosinistra, non sia mai che qualcuno dovesse sospettare ardori rivoluzionari – ma hanno da tempo imboccato la strada del paradigma neoliberista dominante.

Dei tre, Roberto Giachetti ha tante probabilità di vincere quante ne ha il suo partito di conquistare la maggioranza assoluta alle prossime elezioni, quindi è inutile parlarne. Maurizio Martina ha più chances, ma una sua vittoria significherebbe la continuazione del renzismo con un’altra faccia: le sue liste le ha fatte Luca Lotti, braccio destro di Renzi, scegliendo solo i fedelissimi; tanto da far infuriare un altro capo-corrente, Matteo Richetti, spingendolo ad urlare ai quattro venti che non avrebbe più appoggiato quella candidatura. E dunque anche in questo caso non vale la pena di mettersi a ragionare su una eventuale segreteria Martina: saremmo nel “già visto”.

E infine c’è Nicola Zingaretti, il meno coinvolto con la passata gestione e forse per questo al momento il meglio piazzato. Zingaretti, con il suo aspetto da curato di campagna, non emana certo un magnetismo carismatico. Potrebbe forse rimediare se proponesse – come hanno fatto gli altri leader vincenti – un programma, se non rivoluzionario, almeno con qualche nuova idea-forza: macché. A sentirlo ricorda, a chi abbia una certa età, Arnaldo Forlani, che nella Democrazia cristiana è stato in alcuni periodi molto influente. Forlani aveva la non comune capacità di fare discorsi che sembravano avere un senso, ma non dicevano nulla.

In verità qualcosa Zingaretti l’ha detta. Il suo progetto è di aprire il Pd alle forze sociali, liste civiche, associazioni, movimenti e così via. Per fare cosa, per andare dove? Su questo si spande la nebbia delle buone intenzioni, di un progressismo generico, tanto da non far capire quale sarebbe il progresso. Un po’ poco per scaldare il cuore degli ex elettori, approdati ad altri lidi e in gran numero all’astensione.

Come governatore del Lazio Zingaretti è riuscito solo in una cosa davvero notevole: quella, appunto, di vincere le elezioni (anche grazie a una provvidenziale divisione nella destra) mentre il Pd renziano perdeva sempre e dovunque. Per il resto, niente che abbia provocato titoloni sui giornali, il che non è necessariamente negativo, perché significa che almeno grossi danni non ne ha fatti, anche se c’è chi gli rimprovera di aver aumentato due volte l’addizionale regionale Irpef e di aver nettamente favorito la sanità privata – specie quella cattolica – rispetto a quella pubblica.

A cosa potrà aspirare, se davvero diventerà il prossimo segretario del Pd? Al netto delle mosse di Renzi, tanto debole nel paese quanto ancora forte nel partito, il suo sogno sembra quello di replicare a livello nazionale quello che è avvenuto in Abruzzo, dove una variegata coalizione ha superato di poco il 30% (ma la lista col simbolo del Pd si è fermata all’11). Se pure ci riuscisse, resta il mistero di dove vorrebbe poi condurre quel composito drappello, sempre che le sue componenti fossero disposte ad andare nella stessa direzione.

La sinistra italiana è davvero all’anno zero. E l’epigono di quello che fu il suo maggior partito sembra essere ancora più indietro.

Add comment

Submit