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micromega

L’economia è una scienza inutile?

di Carlo Clericetti

È il titolo (senza punto interrogativo) di un libro di Francesco Saraceno, che ripercorre il dibattito degli ultimi anni dall’abbandono del keynesismo alla fase attuale, in cui molte certezze sono state spazzate via dagli anni della crisi. Non è inutile, dice l’autore, se si abbandona la pretesa che esistano leggi universali applicabili in qualsiasi contesto e si impara dalla storia e dall’esperienza.

Chi vuole capire la logica in base alla quale si è voluto varare il Jobs act (e provvedimenti simili in altri paesi europei), o perché si sia istituita una banca centrale che non risponde a nessuno di ciò che fa, o ancora, perché l’Unione europea, a differenza degli altri paesi più importanti, si è sempre rifiutata di utilizzare risorse pubbliche per combattere la crisi; chi vuole capire queste logiche dovrebbe leggere il libro appena pubblicato da Francesco Saraceno.

Il titolo è provocatorio: “La scienza inutile – Tutto quello che non abbiamo voluto imparare dall’economia” (ed. Luiss). Ma fin dall’introduzione Saraceno smentisce il titolo: inutile non è, a patto però di utilizzare determinati criteri. Tra i più importanti c’è “lo studio dei pensatori e della storia del passato”, che è fondamentale per la lettura della realtà. Dicendo questo Saraceno si iscrive a una corrente di economisti che oggi è in netta minoranza: quelli che sostengono che l’economia è una scienza sociale, e non una “scienza delle leggi”, come la matematica o la fisica.

Le “scienze delle leggi” sono cumulative: il sapere attuale è il risultato di quanto è stato elaborato in passato e un chimico non ha bisogno di sapere come Dimitrij Mendeleev ha elaborato la tavola periodica degli elementi, anzi, non ha nemmeno bisogno di sapere che sia esistito: la tavola è valida, basta saper usarla. Quindi, sapere che cosa è accaduto prima è irrilevante, la storia non si studia.

Non solo. Se l’economia è una “scienza delle leggi”, ciò che bisogna fare è individuare queste leggi, e poi seguirle, senza alcuna discrezionalità: non si discute sul fatto che per far bollire l’acqua ci vuole calore, è così e basta.

Ma che succede se a un certo punto ci si rende conto che queste leggi non riescono a spiegare quello che accade? Saraceno si richiama a un classico della filosofia della scienza, “La struttura delle rivoluzioni scientifiche” di Thomas Kuhn. Un “paradigma” – dice Kuhn – ossia quella che potremmo definire una teoria dominante, è “una costellazione di credenze, di valori, di tecniche e d’impegni collettivi condivisi dai membri di una data comunità, fondata in particolare su un insieme di modelli di assiomi e di esempi comuni”. Se il paradigma non è in grado di spiegare qualcosa, dapprima si considera quel qualcosa un’eccezione, ma se le “eccezioni” aumentano di numero diventa chiaro che quel paradigma è inadeguato. “L’adozione da parte della comunità scientifica di un paradigma alternativo costituisce una rivoluzione scientifica”.

In economia, nel dopoguerra, prevaleva un paradigma derivato dalle idee di Keynes, ma interpretate in modo piuttosto meccanico: Saraceno lo chiama “keynesismo idraulico”. Negli anni ’70 del secolo scorso si produsse però un fenomeno nuovo, la cosiddetta stagflazione, ossia stagnazione con inflazione. Il keynesismo idraulico non fu in grado di affrontarlo, e così prese il sopravvento un altro paradigma, quello che oggi chiamiamo neoliberismo ed è costituito da varie declinazioni della teoria neoclassica. Ma la crisi del 2007-8 ha inferto colpi mortali a questo paradigma, tanto che ne stanno riesaminando aspetti fondamentali anche vari economisti che ne sono stati alfieri. Uno per tutti, l’ex capo economista del Fondo monetario, Olivier Blanchard, molto citato da Saraceno. E dunque stiamo arrivando al punto che anche il paradigma neoclassico sta per cedere, almeno in molti dei suoi aspetti fondamentali. Significa che le ricette suggerite e applicate da istituzioni internazionali come il Fondo e imposte con particolare ferocia nell’Unione europea erano e sono sbagliate, soprattutto perché si aveva la pretesa che fossero valide per qualsiasi paese – un’economia in via di sviluppo come una a capitalismo maturo – e in qualsiasi situazione, cioè in una fase in cui la congiuntura è favorevole come in una in cui c’è recessione.

Sotto i colpi della crisi e delle conseguenze nefaste provocate da quelle ricette, cadono convinzioni consolidate, la più importante delle quali è che lo Stato debba intervenire il meno possibile nell’economia e solo per far funzionare al meglio il mercato; ci si ricrede sulla certezza che il deficit di bilancio sia sempre un male, che il debito pubblico sia l’anticamera dell’inferno e si arriva persino a ipotizzare, in alcuno casi, che possa essere in parte finanziato con moneta. Certo, siamo ancora lontani dal vero e proprio cambio di paradigma. Proprio riguardo al debito, un ampio studio di Antonio Pedone e Ernesto Longobardi, sintetizzato in un saggio contenuto nel libro “Politiche economiche e crisi internazionale” (a cura di Amedeo Di Maio e Ugo Marani, ed. L’asino d’oro), arriva alla conclusione che le regole che si vogliono imporre in Europa – quelle che piacciono ai tedeschi – non prevedono affatto che si possa utilizzare il debito, nemmeno per fare investimenti. Cioè l’esatto contrario di quella che Saraceno individua come la nuova linea di pensiero che si sta facendo strada anche fra molti economisti che la pensavano diversamente.

Saraceno racconta questi sviluppi in modo comprensibile anche ai non esperti. Si è fatto le ossa insegnando in una facoltà di Scienze politiche, dove gli studenti non hanno una conoscenza approfondita dell’economia. La facoltà è Sciences Po di Parigi, e Saraceno è vice direttore dell’Ofce, il centro di ricerca economica applicata dell’università. Ci accompagna tra le successive evoluzioni della teoria e ne spiega i presupposti, che spesso sono affermazioni assiomatiche che hanno ben poco a che fare con la complessità del reale. Il testo è arricchito da riquadri nei quali si affrontano le questioni di più stretta attualità, quelle al centro del dibattito economico e politico.

Le conclusioni di Saraceno coincidono con quelle della grande economista keynesiana Joan Robinson, della quale, in apertura dell’ultimo capitolo, riporta questo passo: “Insomma, nessuna teoria economica fornisce risposte pronte per l’uso. Qualsiasi teoria che seguiamo ciecamente ci mette fuori strada. Per fare buon uso di una teoria economica, dobbiamo anzitutto fare la cernita tra gli elementi propagandistici e gli elementi scientifici; poi, verificando con l’esperienza, vedere quanto appare convincente la parte scientifica, e in definitiva combinarla con le nostre stesse idee politiche. L’oggetto dello studio dell’economia non è di acquisire una serie di risposte preconfezionate alle questioni economiche, ma di apprendere come evitare di essere ingannati dagli economisti”.

E dunque, dice Saraceno, “Non esistono ricette universali, né politiche sempre e comunque ‘superiori’ alle altre; gli economisti dovrebbero smettere di vendere questa pericolosa illusione alle opinioni pubbliche e ai responsabili politici. Un economista che voglia contribuire alla cosa pubblica dovrebbe definire le sue raccomandazioni di politica economica per adattarle al contesto specifico in cui saranno attuate, senza perdere di vista le differenti teorie che possono fornire indicazioni utili e tenendo sempre conto delle lezioni del passato, della storia”.

È difficile che chi abbia qualche cognizione degli eventi storici – appunto! – possa non essere d’accordo con queste conclusioni. Ma c’è un’altra variabile rilevante, e riguarda lo scopo che gli economisti vogliono dare al loro lavoro. Secondo Saraceno, “il giudizio critico e non ideologico del ricercatore permette di stabilire con ragionevole certezza quali siano le politiche più appropriate da mettere in atto per aumentare il benessere sociale”. Già, ma qual è il “benessere sociale”? In altre parole, si potrebbe dire che significa “far stare meglio il maggior numero possibile di persone”, possibilmente tutti. Saraceno dà per scontato che questo sia l’obiettivo di tutti gli economisti (e di tutti i politici). Dovrebbe forse parlare con quell’imprenditore ed ex senatore di quello che fu il maggior partito della sinistra (ohimè), che affermò categoricamente: “È la disuguaglianza che genera il progresso!”. Difficile far rientrare questo concetto in quella definizione. Ma in realtà anche Saraceno lo sa bene, e lo scrive a pagina 149 parlando del Nuovo Consenso (la teoria ancora dominante): “Rimane in sottofondo l’idea che efficienza ed equità siano alternative, perché la ridistribuzione di fatto introdurrebbe delle distorsioni nello scambio di mercato; anzi, è convinzione diffusa che la disuguaglianza possa essere positiva perché da un lato aumenta risparmi e investimenti, e dall’altro fornisce i giusti incentivi per l’accumulazione di capitale fisico e umano”. E dunque, lo scopo degli economisti che la pensano in quel modo è aumentare il benessere, ma non il benessere sociale: solo il benessere di alcuni. Che è appunto quello che è accaduto da quando è stato adottato il paradigma oggi (ancora) dominante. Per chi la pensa in quel modo il paradigma neoclassico ha funzionato benissimo: per questo ancora resiste nonostante tutto. Per far cambiare il paradigma dominante bisogna che prima cambi un’altra cosa: la politica dominante.

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