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comidad

La politica inerme di fronte alla lobby della deflazione

di comidad

Molti commentatori si sono chiesti quale necessità vi fosse di affibbiare gli arresti domiciliari ai genitori di Matteo Renzi. Forse non c’erano necessità giudiziarie, ma sicuramente vi era opportunità dal punto di vista comunicativo. Una semplice incriminazione, dati i trascorsi dei due soggetti, non avrebbe fatto notizia e sarebbe passata quasi inosservata. Grazie all’arresto c’è stato invece lo scoop. Il risultato comunicativo è il discredito ulteriore del PD attraverso la persona del suo principale boss, perciò un’eventuale caduta del governicchio Conte non potrebbe vedere candidarsi il PD come guida o componente della successione. Oggettivamente l’operato della magistratura costituisce ancora una volta un tirare la volata ad un governo “tecnico” a guida di Carlo Cottarelli.

L’amarezza dimostrata da Renzi è sembrata andare oltre l’ovvio dramma personale, come se egli in questa circostanza si fosse sentito fregato. La linea del “popcorn”, il sabotaggio dell’accordo di governo tra il PD e i 5 Stelle, è stata probabilmente suggerita a Renzi facendogli credere che in tal modo sarebbe stato lasciato in pace dal punto di vista giudiziario; invece così non è stato ed a Renzi non resta altra opzione che continuare a recitare la stessa parte.

Con la pesante condanna inflitta a Roberto Formigoni tramonta anche ogni prospettiva di un cambio di dirigenza in Forza Italia, un partito ancora legato ai resti mummificati del Buffone di Arcore. Formigoni era infatti l’uomo della “Compagnia delle Opere”, cioè la sola cosca industrial-finanziaria in grado di rilevare Forza Italia dalla dipendenza da Mediaset. Una volta che i “populisti” saranno stati fatti fuori dall’accumularsi dei dati economici negativi, la strada sarà spianata per Cottarelli.

Ormai è lecito dubitare di tutto, anche dei dati Istat che parlano di recessione in atto e di emergenza incombente. Tutto appare sin troppo provvidenziale ai fini di un commissariamento del Paese.

Che vi sia un lobbying mediatico e giudiziario, nemmeno tanto occulto, che grida “Cottarelli”, dovrebbe essere chiaro agli oppositori parlamentari del governo Conte; oppositori condannati invece a continuare la loro messinscena dell’additare un governo di bassissimo profilo come una minaccia per la sopravvivenza della specie umana. Dovrebbe anche risultare evidente che non è previsto spazio per la tradizionale mediazione politica nell’attuale piano di diretta colonizzazione dell’Italia da parte delle istituzioni sovranazionali come la BCE ed il FMI. Qui si dimostra la cronica incapacità della “politica” di far politica, cioè di uscire dai giochi di ruolo e di affrontare il vero nemico, quello non dichiarato, quello che anzi si presenta come l’operatore del “salvataggio” del Paese attraverso l’asettica chirurgia dei conti pubblici.

Non che i politici in blocco non sappiano che esiste una lobby della deflazione. A metà degli anni ’70 l’allora segretario del Partito Socialista, Francesco De Martino, dichiarò che la lotta all’inflazione non doveva diventare un pretesto per avviare politiche deflazionistiche, cioè falcidia della domanda interna attraverso il taglio dei salari, la deindustrializzazione e la disoccupazione. Il povero De Martino però fu lasciato solo davanti al ludibrio mediatico ed alle provocazioni del missino Giorgio Almirante.

Da un discorso parlamentare del 1978 contro l’ingresso nel sistema Monetario Europeo, pronunciato da Giorgio Napolitano ma scritto da Luciano Barca, risultava chiaro che anche il vecchio PCI era consapevole dell’esistenza di una lobby della deflazione. Eppure tale consapevolezza non ebbe alcun seguito nella linea del partito. In particolare non vi fu alcuna volontà di chiarire al proprio elettorato che la “crisi” è l’astrazione, o lo slogan, con cui si giustificano le misure deflattive.

Occorre ricordare che neppure a sinistra del PCI si fece nulla per uscire dalla consueta rappresentazione edulcorata del capitalismo. Le riviste “rivoluzionarie” continuarono imperterrite a proporre una concezione “sviluppista” del capitalismo e ad ignorare che il creare povertà può essere un obbiettivo in sé, poiché la povertà abbassa il livello dei salari e dell’inflazione e quindi impedisce che possa essere scalfito il valore dei crediti dei grandi “investitori istituzionali” nei confronti degli Stati.

Non si può ridurre il problema ad insipienza, codardia, opportunismo o tradimento di questo o quel gruppo dirigente di partito. È la stessa “arte” della politica a dimostrare la propria strutturale inferiorità nei confronti del lobbying. I politici vivono nel dubbio del da farsi, devono mettersi d’accordo tra loro, trovarsi dei leader e delle linee politiche. I politici si invischiano nelle proprie stesse dichiarazioni e si espongono continuamente al vedersi rinfacciate le proprie contraddizioni.

Mentre la politica vive nell’alea dell’incertezza e nel logorio della perenne competizione interna, i lobbisti hanno uno scopo preciso, sempre e solo quello. Il lobbying non ha bisogno di competere, di coordinarsi, di complottare e neppure di pensare, poiché tutto è già stabilito una volta per tutte, per cui si procede in modo automatico. Non c’è bisogno di strategia o di tattica ma solo di tecniche di pubblicità e di pubbliche relazioni. Il lobbista vive la beata serenità dell'automa, come Terminator.

La politica è intrinsecamente vulnerabile al lobbying, perché ogni politico ha bisogno di legarsi ai potentati del proprio territorio per assicurarsi finanziamenti e l’appoggio delle baronie elettorali e dei media. Ogni politico è costretto così a diventare un mezzo lobbista, mentre i lobbisti possono esserlo a tempo pieno.

Le lobby possiedono i media ma al tempo stesso non sono esposte al clamore mediatico che si concentra sempre sul politico di turno da osannare e poi affossare. Le lobby possono invadere l’apparato dello Stato e trasformare i funzionari pubblici in lobbisti inconsapevoli attraverso i corsi di formazione e di management. Ai funzionari pubblici più solerti, le lobby possono anche offrire porte girevoli per carriere folgoranti nel settore privato.

Vista la sproporzione di forze in campo, la vera domanda e perché mai si insista a tenere in “vita” il fantasma della politica, come se ancora vivessimo nelle Polis greche di venti o trentamila abitanti. La risposta è ovvia: il lobbying non ha interesse ad occupare il centro della scena ed è buona norma delle pubbliche relazioni lasciare ad altri il compito di rimediare le brutte figure. La politica deve rappresentare la dimensione del caos al quale soltanto l’intervento provvidenziale della “tecnica” può porre ciclicamente rimedio.

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