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La ripresa di Fachinelli tra Kierkegaard e Heidegger

di Gioele P. Cima

Nel terzo atto de Il paradosso della ripetizione (1973), saggio che attacca duramente l’istituzione psicoanalitica e le sue pratiche affiliative e di potere, Elvio Fachinelli espone la sua teoria della ripetizione. Per lo psicoanalista trentino, Freud si sarebbe limitato a concepire solo il “lato cattivo” della ripetizione, presentandola come un meccanismo coatto che ritaglia la realtà secondo specifiche regole pregresse e da cui scaturirebbe uno schema deterministico unilaterale e immodificabile.

“Per Freud […] il passato diventa presente: è il transfert, l’agire […]. Ma in questo modo il presente quasi non esiste di per sé, non incide; e poiché l’esperienza passata risulta essere, in buona parte, ‘al di là del principio di piacere’, la sua ripetizione tende ad essere ripetizione del negativo.”

Una visione del presente così irriducibilmente inchiodata al passato non è problematica solamente per il modo in cui semplifica la reale complessità dell’esperienza umana, ma anche per il suo risvolto politico: dire che l’uomo è giocato dalla ripetizione, che il suo avvenire non sarà altro che una copia del passato, vuole dire concepire l’inconscio come lo ‘straniero’ nella macchina che manipola l’arbitrio del soggetto e lo priva della possibilità etica di scegliere. Più nello specifico, dire che la ripetizione freudiana deresponsabilizza il soggetto dal proprio sintomo significa dire che la psicoanalisi non è una disciplina demistificatoria, ma essenzialmente reazionaria (e dunque ideologica).

Per Fachinelli invece è necessario portare la ripetizione al di là della sua concezione deterministica e automatica (ovvero di causa) e intenderla piuttosto come un principio. Una simile differenza consente non solo di mettere in crisi la logica meccanicistica e non dialettica che ha dominato il pensiero post-freudiano (definito da Fachinelli un “adjustment socioaffettivo”), ma anche di fare della ripetizione tout court un fenomeno in “due fasi o momenti” distinti. Insomma, la tesi di Fachinelli è che essendo la realtà prima di tutto una “realtà storico-sociale”, dunque qualcosa di diacronico e complesso, non si dà coincidenza possibile tra passato e presente. Piuttosto, si tratta di cogliere, al di là della flessibilità individuale, lo “specifico tipo di ripetizione” entro le sue tre varianti:

  • La replica, “una riedizione pressoché puntuale del già dato” che trasfigura il passato nel presente.

  • La riduzione, cioè una ripetizione impoverita, “più schematica” e degradata.

  • La ripresa, quella ripetizione che, ri-presentando il passato, rimette in atto la vita, aprendola alla conferma o alla modificazione.

Questa distinzione sottolinea “come la ripetizione sia solo un termine generale”, che indica “varie possibilità” e “modalità distinte”. Poche pagine dopo, Fachinelli dichiara che il termine da lui scelto per denotare il suo tipo di ripetizione ‘positiva’, la ripresa, deriva dalla traduzione del saggio Gjentagelsen di Kierkegaard curata da Laura Zucconi nell’edizione Comunità del 1973. In un passaggio molto significativo del suo testo, Kierkegaard scrive:

“La dialettica della ripresa è facile, quello che si può riprendere è già stato, altrimenti non si potrebbe riprendere, ma proprio in questo essere già stato consiste la novità della ripresa.”

A differenza della ripetizione dunque, in cui il presente è incatenato al ritorno di un passato inemendabile, la ripresa permette di rendere di nuovo presente il passato, ma aprendolo alla possibilità del cambiamento. Per dirla alla Kierkegaard, la ripetizione (negativa) avviene (e fallisce) sul piano estetico: il giovane Constantius, che torna a Berlino per provare un piacere già esperito, cura ogni dettaglio che possa contribuire a riprodurre l’esperienza passata, ma il suo tentativo non riesce. Poiché la realtà è asimmetrica, complessa (barrata, direbbe Lacan), il passato è irreversibile. Ma Kierkegaard specifica anche che la Gjentagelsen è possibile solo sul piano religioso, attraverso un atto di pura trascendenza. Di conseguenza, deduce Fachinelli, “fuori di questo ‘movimento religioso’, la conclusione di Kierkegaard sembra corrispondere a quella di Freud. […] Entrambi finiscono per ritrovare, sembrerebbe, la ripetizione del negativo.”

Una volta privata della sua apertura religiosa, anche la ripresa kierkegaardiana retrocede a “contenitore passivo” del passato. Questo dettaglio rende il riferimento di Fachinelli altamente problematico: perché prendere a prestito un termine che denota, anch’esso, un tipo di ripetizione ‘triste’, che non farebbe che ribadire la difficoltà di uscire da una concezione meccanicistica di ripetizione? Inoltre, se Fachinelli adotta solo terminologicamente la soluzione proposta da Zucconi, per poi rigettarne il significato letterale, è possibile identificare una controparte concettuale della ripresa? Detto altrimenti: esiste una concezione di ripresa ‘pura’, ‘ideale’ cui Fachinelli si ispira nella sua lettura di Kierkegaard?

Ritengo che Fachinelli, diversamente da quanto si crede, abbia tratto la sua nozione ideale di ripresa da Martin Heidegger, prima che da Kierkegaard. Benché questo accostamento possa sembrare stridente, la nozione di ripetizione (Wiederholung) che il filosofo tedesco espone nel suo Essere e tempo è quanto di più vicino e soddisfacente vi sia rispetto alla ripresa per come viene pensata da Fachinelli. Questo inedito avvicinamento tra i due autori sarebbe avvenuto in uno scritto ‘giovanile’ del Fachinelli psichiatra (e non ancora psicoanalista), Nuovo significato del disegno e recupero magico del passato nell’opera di un’artista psicotica (1963). Questa evidenza ci dimostra come già allora Fachinelli fosse impegnato nella ricerca di una nozione ‘propulsiva’ di ripetizione, non vincolata ad un’ingenua nozione di eterno ritorno dell’uguale e alla coazione a ripetere (Wiederholungszwang) descritta da Freud. Da questo punto di vista allora, non è un caso che alla fine dello scritto del ’73 Fachinelli finisca per annoverare la ripresa kierkegaardiana tra le ripetizioni “tristi”: la Gjentagelsen non sarebbe meno insufficiente, pessimistica e negativa di quella freudiana. Ma soprattutto, la Gjentagelsen non è la Wiederholung di Heidegger.

Ancor più importante, questa retrodatazione ci permette di inferire che, nel 1963, l’argomento della ripresa non si sia posto a Fachinelli in termini psicoanalitici: più che al testo freudiano, esso rimanderebbe alla questione della temporalità, la vera e unica ossessione dello psicoanalista trentino. Sebbene avesse già intrapreso l’analisi didattica con Musatti, Fachinelli concede qui un solo riferimento a Freud, che non riguarda neanche la coazione a ripetere, ma la regressione, prendendone drasticamente le distanze e definendola troppo semplicistica per cogliere la complessità dell’esperienza umana. In questo studio, Fachinelli mira ad articolare i rapporti tra il vissuto umano e la temporalità attraverso l’analisi di alcuni disegni di una paziente psicotica di 59 anni, Laura G. e, a tal proposito, evoca la celebre distinzione che Heidegger, in Essere e tempo, articola tra l’angoscia (Angst) e la paura (Furcht). Anticipando la sua analisi della ripetizione freudiana, Fachinelli identifica in queste due condizioni due modi per, rispettivamente, entrare in relazione con il proprio passato oppure assoggettarvisi in modo coatto. Se nell’irretimento della paura il soggetto precipita nell’oblio di sé, nell’angoscia, una specie di “brusca rivelazione”, si produce un’apertura che sfocia nell’“autentico avvenire”. Se nell’oblio il soggetto fugge dinnanzi a sé, smarrendosi nell’intramondano, nell’angoscia, con il ritorno del passato, si compie la ripresa, e cioè la ripetizione (Wiederholung) del proprio essere fattuale, della propria insanabile contingenza. Di conseguenza, il Fachinelli del ’63 avrebbe trovato già nella Wiederholung heideggeriana una ripetizione trasformativa e non imprigionante come la regressione freudiana. Ma l’aspetto forse più sorprendente della vicenda è che nella traduzione italiana di Essere e tempo (citata da Fachinelli), Pietro Chiodi renda Wiederholung proprio con “ripresa”. È probabile che anche Zucconi, pensando la Gjentagelsen come altra cosa dalla piatta “ripetizione”, abbia adottato il termine “ripresa” da Chiodi proprio in virtù del suo potenziale modificativo (per quanto vincolato alla clausola della trascendenza).

In conclusione, il concetto di ripresa esposto in Il paradosso della ripetizione sarebbe concettualmente indebitato ad Heidegger, tra i pochi (assieme a Deleuze e Lacan) ad aver offerto una possibilità pura e non trascendente di ripetizione non negativa. In secondo luogo, è chiaro come l’esigenza di Fachinelli di postulare una ripetizione etica e trasformativa sia stata inizialmente formulata all’esterno della psicoanalisi, che avrebbe riassorbito il concetto solo secondariamente. Questa immagine sarà imprescindibile per formulare, nel resto degli anni Settanta e oltre Kierkegaard, un modello di psicoanalisi autenticamente rivoluzionaria (o quanto meno emancipativa). Infatti, come Fachinelli sosterrà quello stesso anno in una polemica con Giovanni Jervis avvenuta durante il convegno Psicologia, ruolo dello psicologo e istituzioni (1973), non sarà la ripetizione reazionaria dei meccanismi affiliativi di potere (analisi didattica) a salvare la psicoanalisi dal declino, ma la sua ripresa: in un mondo in continua trasformazione, non sarà resistendo alla mutazione politica e sociale che la psicoanalisi troverà la sua ragion d’essere, ma ponendosi nella prospettiva di chi saprà porre le giuste domande. Come Socrate “non può entrare a far parte dell’aeropago, pena un radicale stravolgimento del suo insegnamento”, così la psicoanalisi non può soggiacere alla cieca ripetizione del suo modello istituzionale, pena il proprio decadimento a disciplina reazionaria o, per dirla alla Fachinelli, a istituzione della ripetizione.

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