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Venezuela. La frontiera

di Giuliano Granato*

Reportage dal Venezuela. Ci sono frontiere che vedi da lontano. Quelle presidiate dai soldati, con le dogane ben visibili, demarcate perfino con la pittura sul terreno. Tra la Colombia e il Venezuela ci sono tre ponti, tre passaggi ufficiali.

E poi uniformi di un colore da una parte; uniformi di un altro colore dall’altra. Gli Stati Uniti l’hanno segnalata come luogo chiave per capire quello che succede in Venezuela. E, soprattutto, quello che succederà.

I media hanno fatto il resto. Hanno costruito lo spettacolo, montato lo show. Giornali e TV da tutto il mondo, con la statunitense CNN a trasmettere in diretta ogni ora, con corrispondenti dai tanti paesi latinoamericani.

Per qualche settimana Cúcuta, da sconosciuta che era, è diventata un nome sulla bocca di milioni di persone in tutto il mondo. Branson, il miliardario Branson, ha deciso che quello sarebbe stato il teatro perfetto per il concerto dell’anno. Live Aid, le star mondiali della canzone in lingua spagnola, le parole gridate contro la “dittatura” e il miliardario Branson che ci mostra che lui ai poveri vuole bene. Purché siano venezuelani, però. Perché se sono i colombiani che fanno letteralmente la fame a Cúcuta e dintorni, beh, quelli cerchino altri salvatori, ché Mr. Branson ha altre cause da sposare.

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La frontiera tra Colombia e Venezuela, dicevamo. Coi suoi ponti Ureña, Simón Bólivar, Tienditas. Con i camion degli “aiuti umanitari”, bruciati lì sul posto dagli stessi “guarimberos”, i violenti al soldo e al servizio di Trump e dell’opposozione venezuelana. Quella sì che è una frontiera visibile. E “visibilizzata”.

Ma ce ne sono altre di frontiere. Non sono segnate sul terreno, non ci sono barriere all’accesso. Ma non per questo la demarcazione è meno forte. Provate a percorrere Caracas da ovest a est e guardatevi intorno. Il paesaggio urbano non cambia in maniera graduale. A un certo punto è come una botta. O, se volete, come se si entrasse in un’altra dimensione, in un altro continente. D’improvviso ti appare un mondo in cui tutto ti sembra più “bello” e, soprattutto, più ricco. Cambia l’architettura – sembra Miami, spuntano i centri commerciali. Cambiano anche i colori. A prevalere, ora, è il bianco. Non quello delle pareti, ma quello della pelle delle persone che passeggiano per strada. Bianche. Se cammini qui e ti distrai un attimo ti può sembrare di aver ripercorso l’Atlantico, esser tornato in una città italiana. Giacca Adidas, Vans ai piedi, jeans all’ultima moda. Così vestono i giovani. I locali sono pieni, la gente spende, sembra spensierata.

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Siamo al Chacao, poi ad Altamira. Siamo nei bastioni dell’opposizione antichavista. Le strade ora percorse da questi cittadini apparentemente innocui, si sono trasformate in trincee e barricate per lunghi mesi del 2017 e, già prima, nel 2014. Molotov, violenza, bombe. E decine di uomini bruciati vivi. Letteralmente. Come Orlando Figuera, la cui unica colpa era quella di essere nero e di avere una maglietta rossa. Due segni inequivocabili per chi gli ha prima cosparso il corpo di benzina, nel mentre lo accoltellava, e poi gli ha dato fuoco: nero significa povero, povero significa chavista; rosso è il colore dei “castro-comunisti”, quindi, anche qui, chavista. Orlando però non era chavista e chissà perché quella dannata mattina aveva deciso di indossare una maglietta rossa. Un capo innocuo nella gran parte del pianeta, ma non nel Venezuela dell’opposizione “pacifica” e “democratica”, tanto da meritarsi un premio che va agli “straordinari difensori dei diritti umani”, il premio Sacharov, da parte dell’Unione Europea.

Orlando è morto bruciato vivo da questi stessi “straordinari difensori dei diritti umani”, dopo aver trascorso settimane di sofferenze inaudite. Un assassinio atroce, che ha ridisegnato i confini di un’altra frontiera, quella che separa i barbari dai civilizzati. Perché se i civilizzati sono i signori e le signore di Altamira, che mangiano i migliori tagli di carne nell’esclusivissimo “La Estancia”, che si tengono in forma partecipando a gare podistiche e vanno a fare compere a Miami, bisognerà riconoscere che nella loro civiltà rientra anche l’appiccar fuoco a innocenti, agire come un Ku Klux Klan meno folcrostico.

Se non ci sforziamo di vedere queste frontiere, se ne ignoriamo consapevolmente o meno l’esistenza, difficilmente riusciremo a cogliere il senso di quanto accade laggiù, nella terra di Bólivar. Perché il chavismo, da vent’anni a questa parte, ha dichiarato loro guerra, le ha rese più precarie, ha abbattuto muri che tenevano nascosti i poveri agli occhi dei benpensanti, così che potessero continuare a sentirsi “innocenti”. Allo stesso tempo, questo processo ha prodotto l’innalzamento di nuovi muri, fisici e politici. I muri di chi, da sempre privilegiato, non accetta il processo di democratizzazione che si è dato a partire dal 1999: un processo che, per la prima volta nella storia del Venezuela, ha messo nelle mani dei più poveri, degli esclusi e marginali, fette di potere politico ed economico. Così che i poveri oggi non vanno dai ricchi col cappello in mano, ma con testa alta e sguardo fiero. Uno sguardo che per chi li ha sempre guardati come cameriere e giardinieri, non può che sembrare di sfida. Nuovi muri, vecchie frontiere. Da abbattere e da cancellare. Il chavismo, in fondo, continua a rimanere un’enorme sfida per ridisegnare i confini che contano più di tutti, quelli tra esseri umani.


*Potere al Popolo

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