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sinistra

Un libro sulla scuola da rileggere

di Eros Barone

A volte può essere utile, per favorire la loro scoperta da parte delle nuove generazioni o la loro riscoperta da parte di quelle meno giovani, segnalare testi e riflessioni che meritano di essere sottratti alla edacità del tempo, di un futuro sempre meno rispettoso del passato e di un consumo culturale dal ritmo frenetico. È questo il caso di un libro Sulla scuola scritto quando cominciavano ad essere attuate, tra la fine del secolo precedente e l’inizio di questo secolo, le politiche di ispirazione neoliberista che hanno destrutturato il sistema educativo del nostro paese. 1 Il volume in parola è una raccolta degli interventi dedicati, per l’appunto, alla scuola da uno dei maggiori studiosi della cultura e della civiltà del mondo antico, il latinista Antonio La Penna.

Va subito detto che La Penna (classe 1925, tuttora vivente) è un esponente dell’alta cultura del nostro Paese, che, a differenza di altri esponenti che sogliono emettere, senza conoscerlo e senza averne studiato seriamente i problemi, superciliosi (e superficiali) giudizi sul mondo della scuola, può far valere un ‘curriculum’ pluridecennale di indagini e riflessioni serie, non meno argomentate che documentate, sui problemi della scuola italiana. Fatta questa opportuna premessa, occorre aggiungere che il libro non si rivolgeva solo agli ‘addetti ai lavori’, cioè agli insegnanti, ma anche agli ‘interessati ai lavori’, cioè «a studenti e famiglie che ancora sentano il bisogno di una scuola utile e formativa».

I motivi che giustificano l’interesse per questo libro sono pertanto da individuare, innanzitutto, nell’atteggiamento insieme critico ed equilibrato che l’autore assumeva rispetto ai problemi concreti cui la riforma Berlinguer si prefiggeva di dare risposta (si pensi, ad esempio, al problema degli sbocchi professionali), così come rispetto al lavoro condotto dalla ormai storica Commissione dei Saggi . Tuttavia, il motivo di maggiore interesse del libro di La Penna va ricercato nel modo in cui egli definiva lo spazio e affermava il ruolo della cultura classica nella formazione secondaria. A questo proposito, è da osservare che il ragionamento storico che l’autore svolgeva sul segno tutt’altro che univoco che la tradizione classica è venuta assumendo nel corso del tempo era, proprio perché fondato sul solido terreno dell’analisi differenziata, privo di qualsiasi traccia di retorica bellettristica o di stantìo passatismo: in effetti, come dimostrano il mito della repubblica romana nel periodo dei Comuni, il modello spartano posto da Rousseau al centro della dottrina della democrazia moderna, il ‘cesarismo’ di Napoleone I e di Napoleone III e la strumentalizzazione dei valori della civiltà romana da parte dei regimi nazista e fascista, l’eredità classica rivela un carattere multiforme che non permette né di comprimerla nel letto di Procuste di una ‘continuità’ inesistente, giacché il mondo medievale e, ‘a fortiori’, il mondo moderno si formano a poco a poco dopo la fine del mondo antico, né di attribuirle un significato esemplare, ponendola sotto il segno di un plotinismo storiografico per cui ciò che precede è sempre migliore di ciò che segue. In realtà, lo spazio e il ruolo della cultura classica nella formazione delle giovani generazioni nascono dalla centralità che il mondo antico riveste nella ricerca e nella elaborazione condotte dalla cultura contemporanea in ambito letterario, artistico, politologico, storiografico e filosofico. «La conoscenza del latino e del greco e della cultura antica asseriva a buon diritto l’autore è necessaria per tutti quegli studi in cui la conoscenza della cultura europea nel suo sviluppo storico ha un ruolo essenziale: in concreto per studenti di lettere e filosofia, di scienze della formazione, di giurisprudenza, di scienze politiche e sociali: per tutti questi è opportuno che provengano da un iter preuniversitario tale da mettere in grado di leggere testi in latino e in greco».

Ma ciò che rende particolarmente persuasiva, soprattutto oggi, la rivendicazione, che innerva le riflessioni di La Penna, della utilità e della attualità della cultura classica è il quadro filosofico in cui egli la inserisce. Un elemento di forza della sua posizione è infatti costituito dalla energica affermazione della necessità di estendere e approfondire la cultura scientifica all’interno (ma anche all’esterno) di una scuola, quale quella italiana, così a lungo dominata da una egemonia umanistica basata sull’alleanza tra l’idealismo crocio-gentiliano e lo spiritualismo cattolico (posizione, questa, che, tra l’altro, lo apparenta strettamente, lui classicista, a quella corrente culturale il cui maggiore rappresentante è stato nel nostro paese il filosofo della scienza Ludovico Geymonat, protagonista, su questo decisivo terreno, di una coerente battaglia intellettuale e civile). In tal senso, la polemica di La Penna verso quel ‘lucus a non lucendo’ che è la ‘Weltanschauung’ dell’umanesimo è assai incisiva. Così, una volta dissipate le cortine fumogene che l’avvolgono, è facile constatare che l’umanesimo si rivela, per un verso, una nozione polisemica e sostanzialmente indefinita, ‘bonne à tout faire’, e, per un altro verso, una concezione filosofica che sopravvaluta il peso dell’uomo nell’universo, creando uno iato incolmabile tra il mondo umano e il mondo naturale. Altrettanto reciso è il rifiuto della scissione fra le ‘due culture’, che è correlativo al rifiuto di quello iato: «Non vi sono scienze della natura e scienze dello spirito, ma, semplicemente, scienze, ciascuna con una propria area e con propri metodi, anche se ciascuna talvolta ha bisogno di altre e impara da altre anche nei metodi».

Lo stesso atteggiamento, insieme critico ed equilibrato, traspare nel modo in cui La Penna giudicava il decreto che ha reso obbligatorio, nell’ultimo anno della secondaria superiore, lo studio della storia del Novecento: da un lato, egli riconosceva che lo studio della storia contemporanea è, oltre che un fine essenziale della formazione del senso storico nelle giovani generazioni, un aspetto fondamentale della ricerca storica, come indica la circostanza che i maggiori esponenti della storiografia antica e moderna (da Tucidide a Mommsen) sono stati tutti contemporaneisti; dall’altro, metteva in guardia dai rischi di un presentismo effimero e dalla conseguente vanificazione del senso storico che deriverebbe da una conoscenza del passato che riducesse, sino a sopprimerle, quelle componenti di percezione dell’alterità, della differenza e della prospettiva, che alimentano dialetticamente, insieme con la percezione dell’identità, della permanenza e della durata, la formazione del senso storico.

Sempre viva era poi in La Penna l’attenzione al rapporto fra la scuola e il mondo del lavoro e della produzione, attenzione che lo portava a sottolineare l’esigenza di una scuola capace di fornire, oltre che una formazione culturale di base, un’adeguata formazione professionale. Naturalmente, La Penna non mancava di sottolineare con altrettanta energia la funzione che la scuola deve svolgere sul terreno della trasmissione di «certi valori affermati dalla civiltà europea moderna, come la libertà, la tolleranza, la giustizia, l’uguaglianza, l’amore dell’umanità tutta» (valori che egli, per altro, non ha mai eternizzato, ma di cui ha sempre posto in evidenza il duplice carattere che li rende, insieme, stabili e transitori).

La concezione educativa proposta dall’autore si riassumeva, pertanto, in un modello di scuola che fosse capace di costruire (o, ancor meglio, decostruire e ricostruire) un sapere che, senza rinunciare a servirsi di tutte le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie infotelematiche, demarcasse nettamente la sua irriducibile differenza rispetto ai codici del denaro, del sesso e del potere, su cui si fonda il sistema dei ‘mass media’, e si appropriasse, con la forza della ragione (che è cosa ben diversa dalla ragione della forza, tant’è che, in una simile ottica, il termine ‘scuola’ assume realmente un timbro di battaglia), il codice della ricerca della verità, che le appartiene quale sua intima essenza. Certo, la scuola non può disinteressarsi del ‘negotium’ (anche perché è il ‘negotium’ a interessarsi di lei), ma perderebbe il ‘proprium’ che la caratterizza in quanto scuola, se non riconoscesse il giusto spazio all’‘otium’ (che è quanto dire all’attività intellettuale fondata sulla ricerca e sul perseguimento della verità).

In definitiva, La Penna con questo suo libro sulla scuola ci ha ricordato, rispetto al nuovo modello di scuola che stava allora nascendo dalla riforma Berlinguer e che sarebbe stato poi ripreso in forma peggiorativa da quelle dei suoi epigoni, il ruolo insostituibile che è destinato ad assolvere il ‘clinamen’ di tipo epicureo: ossia la casualità di quella deviazione dal moto rettilineo degli atomi che si esprime nella necessità educativa della “perdita di tempo”. Di quest’ultima proprio Rousseau tesseva l’elogio, quando diceva che con i bambini e con gli adolescenti l’arte dell'educazione sta tutta nel saper perdere tempo. Non si tratta dunque di contrapporre alla scuola ‘utile’ una scuola ‘inutile’; si tratta invece di riscoprire un concetto più vasto e più profondo di utilità, da porre alla base della ‘paideia’ moderna e della forma-scuola cui spetta il compito di contribuire a produrla.


Note

1 A. La Penna, Sulla scuola, Koinè, periodico culturale, Editrice Petite Plaisance, Pistoia 2000.

2 Cfr. Le conoscenze fondamentali per l’apprendimento dei giovani nella scuola italiana nei prossimi decenni - I materiali della Commissione dei Saggi, in «Studi e Documenti degli Annali della Pubblica Istruzione», n. 78, Le Monnier, Firenze 1997, pp. XVI-438.

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