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rinascita

Per il nove di marzo

di Mimmo Porcaro

Mimmo Porcaro non ha potuto raggiungerci a Roma ma ha voluto essere comunque con noi.  Qui di seguito il testo integrale del suo intervento video alla Presentazione del Manifesto per la Sovranità Costituzionale

Il prossimo 9 marzo si terrà a Roma, al Teatro de’ Servi, l’assemblea di lancio del Manifesto per la sovranità costituzionale, recentemente elaborato da Patria e Costituzione, Senso Comune e Rinascita!.

Se l’iniziativa, come mi auguro, riuscirà e se avrà un seguito, saremo di fronte ad un fatto nuovo: ai primi passi di quel soggetto politico che da troppo tempo manca in Italia, un soggetto che sappia coniugare la grave questione sociale che tormenta il paese (uso volutamente il termine che era in auge prima della costituzione dei lavoratori in forza politica indipendente…) e la questione nazionale, mostrando il nesso tra la necessaria ricostruzione dello Stato (ripresa dell’intervento pubblico, welfare, piena occupazione), la ridefinizione della posizione geopolitica dell’Italia, la ripresa di un discorso socialista adeguato ai tempi ed alle specificità italiane.

Problemi del tutto indipendenti dalla mia volontà mi impediranno di partecipare, ma data l’importanza della cosa propongo egualmente un mio contributo alla discussione, elencando tre delle (molteplici) condizioni che devono realizzarsi perché le promesse contenute nel Manifesto possano iniziare a realizzarsi.

La prima condizione è la completa rottura, culturale prima ancora che politica, con la sinistra italiana. Non si tratta di rinunciare di colpo al confronto, con le migliaia di persone oneste e capaci che ancora militano nella sinistra. Si tratta però di capire e di dire apertamente che la sinistra italiana, in tutte le sue sfumature pur se in diversi gradi, è la principale responsabile politica dell’impoverimento delle classi subalterne, dei peggiori strappi alla Costituzione, del servilismo di principio verso le istituzioni europee e gli Usa. Preciso che a mio parere la cosa non si risolve facendo appello alla “vera sinistra”. Un tale appello è a volte retoricamente utile, ma alla lunga nasconde la tragica verità: la “vera sinistra” è quella che abbiamo sotto i nostri occhi: modernizzazione capitalistica, globalizzazione imperialista, libero mercato e residuale, impresa, precarizzazione. Per il resto: retorica dei diritti che serve ad incanalare e dividere il conflitto sociale in tanti bei movimenti monotematici, ciascuno incapace di cogliere il nocciolo della questione. La sinistra è questo: capitalismo, parlamentarismo, guerra; quando serve, suffragio universale, quando invece il voto è d’ostacolo, governo dei tecnici. Quando e se la sinistra è stata qualcos’altro, quando e se ha saputo connettersi, identificarsi con le classi subalterne, ciò è accaduto per l’intreccio tra essa e qualcosa di diverso: il movimento operaio socialista e comunista. Ammainata la bandiera rossa, la sinistra è tornata ad essere una variante della gestione capitalista, a volte meno, a volte più pericolosa della variante di destra. C’è stato un tempo in cui non si voleva superare la distinzione fra sinistra e destra perché si temeva che con ciò si volesse rimuovere o nascondere la distinzione tra lavoro e capitale. Giusta precauzione; ma le cose sono ormai sono ormai decisamente cambiate: se si vuole sottolineare il conflitto tra lavoro e capitale e se ne vogliono comprendere le forme attuali, bisogna smetterla con la distinzione fra sinistra e destra e mettere in campo con forza la , pur sapendo quanto deve essere rinnovata l’idea di socialismo e quanto deve mutare il linguaggio dei socialisti stessi. Dunque: nessuna nostalgia per la sinistra, per l’unità della sinistra, per il fronte di sinistra contro la destra, ecc.. Ogni eventuale rapporto con la sinistra deve essere anzi visto come un problema, e dobbiamo chiederci se la cosa è politicamente motivata o se non stiamo ripetendo vecchie abitudini, se non stiamo favorendo, per pigrizia intellettuale o opportunismo, la megamacchina liberista che è la prima responsabile dello slittamento a destra delle classi subalterne occidentali.

La seconda condizione è l’allontanamento da quello che io chiamo “sovranismo storico”, ossia da un atteggiamento culturale e politico che meritoriamente sottolinea e ribadisce il carattere antipopolare dell’ Ue e dell’Uem, ma proprio per questo tende, pur quando non vuole, a fare dell’exit e del recupero della sovranità nazionale un fine in sé e non un mezzo, impedendosi così di crescere oltre il proprio steccato e di aumentare la propria capacità di convincere (e rassicurare) quella grande maggioranza dell’elettorato che è necessaria a sostenere la rottura con le istituzioni comunitarie. Non si può costruire un partito sull’uscita dall’euro e sulla rottura con l’Unione. Non si costruisce un partito con largo seguito popolare su una serie di negazioni e su una prospettiva obiettivamente complessa che gli avversari hanno buon gioco a drammatizzare. Dato per scontato che la lotta sarà comunque durissima, proprio per questo bisogna arrivarci con una coalizione sociale e politica mossa da esigenze positive (sovranità popolare, stato sociale, piena occupazione), che sperimenti nei fatti l’inconciliabilità fra queste esigenze e l’Unione: un qualcosa che è stato malamente abbozzato dai gialloverdi, e che ha già comunque aumentato la sfiducia popolare nell’Unione, ma che è stato lasciato inevitabilmente a mezz’aria per i limiti di classe e culturali della compagine di governo. Non si tratta, ovviamente, di nascondere le nostre idee: la finzione sarebbe smontata in un attimo da un qualunque intervistatore ostile (e ce ne saranno centinaia…). Si tratta di non presentare l’exit come programma immediato, di avere per ogni evenienza un programma di governo sic stantibus rebus, e di definire contemporaneamente un piano A di uscita negoziata e di apertura ad una ricostruzione dell’Ue su basi confederali, ed un piano B di uscita unilaterale in risposta al precipitare di una crisi non altrimenti gestibile. Si tratta di impedire che il ricatto economico intralci la costruzione dell’ampia coalizione che ci è necessaria, e di far sì che il nostro attacco avvenga sulla base del massimo consenso popolare. Deve peraltro essere chiaro che l’idea dell’uscita negoziata non deve diventare, come pure è possibile, l’ultimo rifugio dell’europeismo. Non esiste nessuna possibilità di uscita negoziata se gli interlocutori non percepiscono che l’Italia ha elaborato e un programma di exit unilaterale credibile e dotato di sostegno popolare. Non dobbiamo annacquare la prospettiva antiunionista che è e deve essere uno dei nostri tratti distintivi, dobbiamo piuttosto gestirla con realismo.

La terza condizione è quella di tornare a “fare società” e a fare politica. Dobbiamo avere la capacità di connetterci immediatamente ad ogni movimento sociale in cui si esprima il disagio popolare. Anche quando si tratta (come è oggi inevitabile) di movimenti spuri ed ambigui. Ma prima ancora dobbiamo costruire un’organizzazione politica che sia espressione di quel popolo: un partito i cui aderenti e dirigenti provengano soprattutto dalle fila del precariato, del lavoro malpagato, dell’immigrazione; un partito in cui si possa creare l’abbozzo di quell’alleanza tra lavoro più e lavoro meno qualificato la cui mancanza condanna tutti i lavoratori alla subalternità. E una tale organizzazione deve, appunto, fare politica. Intendo con ciò qualcosa di diverso dalla semplice rivendicazione della propria identità e dalla circolazione di tale identità nell’universo mediatico: quella sorta di “selfie di massa” a cui si è ridotta oggi la politica della sinistra. Intendo piuttosto la capacità di intervenire sempre, in ogni congiuntura determinata, con proposte che tendano a spostare i rapporti di forza a nostro favore e a favore delle classi subalterne. Ad esempio, sottolineare le manchevolezze del M5S e contrapporvi la nostra più lucida e completa analisi è un’operazione identitaria; individuare le contraddizioni nel M5S e avanzare proposte precise che ne accentuino la dialettica interna è fare politica. La prassi identitaria è inevitabile, e in certi momenti è l’unica che ci è concessa. Ma bisogna sempre avere presente la differenza.

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