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L’Italia sul ring tra Usa e Cina

di Lucio Caracciolo

Non è da tutti offrirsi contemporaneamente all’ira della superpotenza – che di fatto è il nostro padrone di casa – e della sua unica sfidante

L’Italia è finita senza accorgersene nel mezzo del ring dove Stati Uniti e Cina si sfidano per il titolo mondiale dei supermassimi. Esposta ai colpi degli uni e degli altri, sopra e sotto la cintura.

Non è da tutti offrirsi contemporaneamente all’ira del campione in carica nostro nominale alleato, di fatto padrone di casa e del suo sfidante unico, che vorrebbe servirsi dello Stivale per avvicinarsi al centro del quadrato, occupato dal detentore. Il match minaccia di prolungarsi oltre i tempi regolamentari. Resta da stabilire come sia stato possibile ficcarci in tanto guaio. E, se possibile, come uscirne. Per questo occorre capire che cosa vogliono e possono, nell’ordine, Cina, Stati Uniti e Italia.

La Cina usa il brillante marchio delle nuove vie della seta per costruire una controglobalizzazione a 360 gradi. Pechino si è convinta da un decennio che il sistema geopolitico ed economico centrato sugli Stati Uniti sia in decomposizione. Quindi non intende entrarvi come junior partner ma stabilire le regole del nuovo gioco sinocentrico, cui altri potranno aggregarsi. La Belt and Road Initiative (Bri), nome ufficiale della strategia, consta di almeno tre volani.

Primo. Infrastrutturare le rotte marittime e terrestri fra Cina-Asia, Africa ed Europa

Secondo. Penetrare nei sistemi politico-istituzionali dei paesi coinvolti seguendo il principio di minor resistenza: si individuano i “ventri molli”, li si infiltra e di lì ci si espande. A differenza della Russia, che vuole tenere la Nato il più possibile lontano dalle sue frontiere, la Cina cerca di penetrarvi. L’espansione verso est della sfera d’influenza americana in Europa le va benissimo perché non la minaccia mentre tiene sotto pressione Mosca e allunga la catena di controllo di Washington.

Terzo. Costruire basi militari lungo le rotte interessate. La prima è a Gibuti, collo di bottiglia fondamentale lungo la direttrice Pacifico-Indiano-Suez-Mediterraneo, dove infatti sono installate quasi tutte le maggiori potenze, oltre all’Italia. Altre basi seguiranno. O ci sono già, coperte. È probabile che il progetto cinese, accompagnato da una tonalità retorica inutilmente arrogante, superi le risorse a disposizione dell’Impero del Centro. Forse potrebbe accentuarne la crisi, già percepibile. O spingerla verso lo scontro diretto con gli Stati Uniti, ipotesi studiata in ogni dettaglio dalle Forze armate dei due massimi contendenti. Gli Stati Uniti non accetteranno mai di cedere spontaneamente la corona mondiale. Per questo sono in modalità prebellica contro la Cina (e la Russia).

La partita dei dazi ne è solo manifestazione laterale. Il contenimento delle ambizioni di Pechino avviene in tutte le dimensioni, a cominciare dall’intelligence e dalla preparazione della guerra cibernetica. Washington considera la Bri minaccia vitale – dopo averla a lungo sottovalutata – ed è pronta a colpire con rappresaglie sproporzionate chiunque apra troppo la porta a Pechino. Specialmente se alleato, o formalmente tale. Oggi lo Stato profondo a stelle e strisce considera nell’ordine Cina, Russia e Germania quali principali avversari, perché valuta l’allineamento dei loro interessi inconciliabili con la sua primazia planetaria, in evidente affaticamento.

L’Italia è agli occhi di Washington una Germania minore: condividiamo fra l’altro con Berlino un approccio morbido verso Mosca e Pechino, oltre a una notevole parte della catena del valore industriale. La minaccia americana di tagliare la razione abituale di informazioni segrete trasmesse ai tedeschi e parallelamente a noi non può essere retorica, altrimenti la superpotenza vedrebbe intaccata la sua credibilità, che partner e avversari non danno più per scontata.

Nella partita delle vie della seta, ingaggiata dai governi Renzi e Gentiloni e accelerata da Conte, l’Italia era e resta a caccia di soldi. Confitti nel nostro economicismo, che immagina le relazioni di potenza come un mercato (meglio, un suk), non ci siamo resi conto della posta in gioco. Questa investe le decisive dimensioni delle reti, delle nuove tecnologie, dell’intelligenza artificiale, oltre alla sfera militare. Ad esempio, se i cinesi provassero a installare dei centri di raccolta dati a Genova o a Trieste – ascelle italiane delle rotte mediterranee – gli americani lo impedirebbero. E ci darebbero una lezione a futura memoria. Anche attraverso le agenzie di rating (roba loro), che smetterebbero di edulcorare il giudizio sullo stato delle nostre finanze pubbliche.

Da tutto questo, tre indicazioni.

Primo. L’Italia ha urgente necessità di un centro strategico nazionale. Non possiamo più permettere che autorità locali, settoriali o addirittura singoli individui prendano impegni che riguardano la sicurezza dello Stato, spesso non rendendosene conto. Mentre il gioco fra potenze si fa duro, noi discutiamo di devolvere altre funzioni alle Regioni, immaginiamo città Stato (ne discettano persino i sindaci di Milano e Napoli), sogniamo regressioni preunitarie (riedizioni del Lombardo-Veneto e nostalgie borboniche). E chiacchieriamo di Europa come se esistesse. Siamo fuori rotta.

Secondo. Abbiamo tutto il diritto, anzi il dovere, di attrarre investimenti esteri per rinsanguare un’economia in stallo. In particolare, agganciare Genova e Trieste alle nuove vie della seta e alle infrastrutture paneuropee in progetto è un’ovvia priorità. Ma non tutte le provenienze di questi denari sono eguali. Se ad esempio ci leghiamo al principale competitore (Cina) del nostro padrone di casa (Usa), dobbiamo prima concordare con Washington le linee rosse da non superare. Come hanno fatto altri paesi Nato più consapevoli di noi. Meno memorandum, dal valore simbolico irritante per gli Usa, e più investimenti, cinesi e non solo.

Terzo. Ricostruire le tecnostrutture in disarmo delle nostre istituzioni pubbliche. Ovvero i luoghi della continuità strategica, dove si raccolgono e gestiscono informazioni ed esperienze indipendentemente dal colore politico di chi governa. Il tempo dell’improvvisazione è scaduto.

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