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Sull'orlo del precipizio

di Marino Badiale, Fabrizio Tringali

Sul numero di Marzo 2019 del mensile "L'altrapagina" appare una intervista agli autori di questo blog. L'abbiamo rielaborata per farne un articolo per il blog. Qui trovate il sito della rivista (dove mi sembra non appaiano i numeri recenti). Ringrazio l'amico Maurizio Fratta per averci dato questa opportunità [M.B.]

La maggiore urgenza del mondo contemporaneo è probabilmente quella della “conversione ecologica”, per usare il titolo di un bel libro di Guido Viale. È cioè necessario, per preservare un livello decente di condizioni di vita, ed anche di civiltà, una profonda ristrutturazione della nostra organizzazione economica e sociale, che renda il nostro modo di vivere, produrre e consumare compatibile con la preservazione degli equilibri ecologici del pianeta.

Ma questo fondamentale passaggio di civiltà è impossibile all’interno del mondo capitalista.

Il modo di produzione capitalistico, infatti, è essenzialmente un processo di accumulazione senza fine, che per potersi perpetuare, è inevitabilmente spinto a oltrepassare ogni limite, sia esso di tipo sociale o ambientale.

Ma accettare il fatto che l’attività umana debba essere compatibile con i ritmi biologici ed ecologici del pianeta significa appunto prendere atto che vi sono dei limiti che non devono essere superati. Modo di produzione capitalistico ed ecologia sono quindi essenzialmente in contraddizione fra loro, e le conseguenze del superamento dei limiti ecologici cominciano ad apparire evidenti nella stessa vita quotidiana.

Il mutamento climatico è ormai una realtà con la quale fare i conti, ma si tratta solo della più evidente fra le tante minacce che l’attuale organizzazione economica e sociale sta portando alla vita e alla civiltà degli esseri umani.

L’accumulazione capitalistica è quello che nel linguaggio comune si chiama “crescita” (o anche sviluppo); l’uscita da una organizzazione sociale distruttiva come l’attuale non potrà allora che essere determinata da un rifiuto del dogma della “crescita” e dalla configurazione di nuovi indicatori di benessere, capaci di misurare le reali condizioni di vita e di lavoro della maggioranza delle persone, e che pertanto, non potranno non prendere in considerazione gli equilibri ecologici e ambientali, i quali determinano le condizioni nelle quali le persone vivono (città non inquinate, presenza di spazi verdi, cibo sano etc..).

Appare però evidente che i ceti oggi dominanti, a livello planetario, non hanno nessuna intenzione di uscire dall’attuale modello di economia basato sulla crescita, e quindi scelgono deliberatamente di non porre in essere incisive azioni di salvaguardia degli equilibri ecologici.

Ne è prova l’inconcludenza delle tante conferenze sul clima di questi anni.

Il paradosso è che i ceti oggi dominanti non solo non fanno nulla per prevenire i disastri ambientali incipienti, ma nemmeno fanno sì che la crescita economica diffonda qualche beneficio sui ceti subalterni. Da quarant’anni ormai, i ceti medi e bassi sono esposti a una continua erosione di diritti e redditi, che in tutto questo periodo non si è mai fermata, nei priodi di crescita come in quelli di recessione.

Sta qui la radice della ribellione “populista” contro i ceti oggi dominanti, che in modi diversi sta attraversando l’intero mondo occidentale.

Gli intellettuali che stigmatizzano questa rivolta dimostrano una volta di più la propria incomprensione della storia e la propria “cupidigia di servilismo” (per usare un’espressione famosa) nei confronti di un’élite manifestamente incapace di elaborare un’idea di organizzazione sociale che conceda anche solo un po’ di benessere e di sicurezza ai ceti subalterni.

Se adesso a questa incapacità di pensare e agire per una società un po’ meno disegualitaria, aggiungiamo la volontà di non fare alcunché per fermare l’incipiente crisi ecologica, appare evidente come i ceti dominanti rappresentino oggi il peggior nemico dell’umanità. La lotta contro di loro e contro il capitalismo neoliberista di cui essi sono espressione è dunque una battaglia per la salvezza dell’umanità e della civiltà.

Nel caso specifico dei paesi europei, le politiche neoliberiste si sono concretamente attuate attraverso gli strumenti dell’Unione Europea e della moneta unica. UE ed euro sono istituzioni pensate e create in perfetta armonia con lo sviluppo delle politiche neoliberiste.

Esse sono pensate per favorire il più possibile la circolazione di merci e capitali, esattamente il contrario di ciò che bisognerebbe fare per uscire dalla distruttiva economia della crescita. Sono pensate per lasciare libero spazio al mercato e impedire l’intervento dello Stato nell’economia. Di nuovo, questo è esattamente il contrario di ciò che sarebbe necessario. Come abbiamo detto, il modo di produzione capitalistico, che agisce nel mercato, è essenzialmente incapace di rispettare i vincoli che derivano dal rispetto degli equilibri ecologici.

Per imporre questi vincoli, è necessario l’intervento regolatore dello Stato. Allo stesso modo occorre lo Stato per finanziare la rivoluzione tecnologica che è necessaria per il passaggio ad una “economia ecologica”. Mariana Mazzucato, nel suo bel libro su “Lo Stato imprenditore”, ha chiarito come in situazioni di questo tipo solo lo Stato possa avere la visione lungimirante che appare necessaria per progettare e realizzare cambiamenti profondi e a lungo termine.

Appare allora evidente che l’uscita da UE ed euro è una delle condizioni necessarie (ma non sufficienti) per impostare una politica economica all’altezza dei problemi fin qui esposti.

Se riassumiamo queste brevi considerazioni, possiamo delineare quali potrebbero essere i punti qualificanti di una forza politica che intenda farsi carico dei problemi di fondo del mondo attuale.

Il primo punto dovrebbe essere l’intervento dello Stato nell’economia, per la conversione ecologica del sistema produttivo e, assieme, per una politica che riduca le disuguaglianze attuali, ripristinando, in forme eco-compatibili, i diritti sociali di cui i ceti subalterni sono stati privati nella fase del capitalismo neoliberista e globalizzato.

Una tale forza politica dovrebbe contrastare la globalizzazione, lottare per la ri-costruzione dello Stato nazionale con piena sovranità e ovviamente, in Europa, agire per la distruzione della moneta unica e dell’Unione Europea.

Tutto questo andrebbe inquadrato nella prospettiva della fuoriuscita dalla società della crescita.

Tuttavia, se questo è, in estrema sintesi, ciò che una forza antisistemica dovrebbe esprimere, non possiamo esimerci dal guardare in faccia le realtà: oggi non esiste alcun soggetto politico con queste caratteristiche. E non ci sono indizi che una tale forza politica sia prossima a sorgere. Se guardiamo al panorama attuale delle forze antisistemiche vediamo che esse portano avanti alcune delle istanze secondo noi necessarie, ma lo fanno isolatamente e anzi contrapponendosi le une alle altre.

Così le forze che si ispirano al marxismo, o che comunque sostengono la causa dell’anticapitalismo e della giustizia sociale, lo fanno quasi sempre senza criticare l’idea di crescita, mentre i movimenti ecologisti e decrescisti appaiono spesso limitati a buone pratiche personali e poco sensibili ai temi della giustizia sociale, e anche alla necessità di elaborare una strategia efficace sul piano politico, capace di aggregare consenso.

Non a caso, sia gli uni che gli altri, non riescono ormai che a costituire microscopici gruppuscoli, totalmente incapaci di incidere in qualsiasi aspetto della realtà.

Si tratta di un dato di fatto ormai storicamente acquisito. Il carattere ultraminoritario di tale mondo può dipendere anche da limiti soggettivi delle persone ad esso interne. Ma questo è solo un primo livello. Infatti, quando emerge una autentica esigenza storica di mutamento, i limiti soggettivi di questo tipo vengono superati, in un modo o nell’altro. Se questo oggi non succede, significa che probabilmente c’è, nel profondo di ciò che è oggi l’essere umano, qualcosa che blocca la spinta al mutamento.

Quel che è successo in questi decenni è la profonda interiorizzazione, da parte dei ceti subalterni, del pilastro fondamentale dell’ideologia contemporanea: il principio cioè che questo mondo è l’unico mondo possibile, che non c’è alternativa.

Si tratta del famoso slogan TINA, appunto “There Is No Alternative”, che risale ai tempi della Thatcher.

L’essere umano si è adattato a un mondo privo di prospettive, ha aderito alla “nuova ragione del mondo” (come recita il titolo di un acuto libro di Dardot e Laval), ed esprime l’inevitabile disagio, che questo mondo mortifero genera, nella forma di sporadiche rivolte che non riescono mai a coagularsi in una autentica sfida politica al sistema dominante. Quando l’opposizione e il disagio si fanno effettiva forza politica (come nel caso dei vari movimenti e partiti “populisti”) non si arriva mai ad una contestazione di fondo dell’attuale organizzazione economica e sociale; in certi casi, anzi, i movimenti “populisti” appaiono in profonda sintonia col modello neoliberista: si vedano per esempio i partiti che compongono l’attuale governo italiano, la Lega e il Movimento 5 Stelle, che appaiono critici verso l’UE ma ne condividono il neoliberismo di fondo.

Ciò che appare è dunque una egemonia di fondo dell’attuale organizzazione socioeconomica e della sua antropologia, che sembra rendere impossibile una efficace contestazione della sua distruttività.

Tale egemonia si esprime anche all’interno delle forze antisistemiche sopra citate. Alcune incapaci di sottrarsi al dogma della crescita infinita, altre estranee o addirittura ostili alla dimensione politica, che è l’unica che incide nella realtà.

In queste condizioni, è giocoforza concludere che l’attuale capitalismo percorrerà fino in fondo la sua parabola distruttiva, prima che dalle macerie possano cominciare ad emergere nuove forme di relazioni umane.

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