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Capitalismo e lotta di classe: una risposta a Alessandro Barile

di Carlo Formenti

Alessandro Barile è stato attento lettore di due miei libri recenti, “Utopie letali” e “La variante populista”, da lui commentati sul sito Carmilla con una posizione lontana dalle reazioni scandalizzate di molti intellettuali delle sinistre (cosiddette) radicali o antagoniste. In particolare, è stato fra i pochi ad apprezzare (o almeno a considerare stimolanti e legittime) due delle mie tesi di fondo: 1) quella secondo cui, oggi, lo scontro sociale non si presenta nella tradizionale forma bipolare capitale/lavoro bensì come conflitto fra potere liberal liberista e un eterogeneo blocco di soggetti sociali unificati dalla rabbia contro gli effetti del processo di globalizzazione, piuttosto che da una qualche forma – ancorché embrionale – di coscienza di classe; 2) quella che identifica nel relativismo ideologico – figlio del relativismo epistemologico delle filosofie postmoderniste – la radice culturale della perdita di ogni riferimento alla realtà sociale da parte delle sinistre radicali (in primis postoperaiste).

Recensendo – sempre su Carmilla – il mio ultimo lavoro, “Il socialismo è morto. Viva il socialismo” (di cui i lettori di Micromega hanno avuto accesso a un ampio estratto), Barile replica nella prima parte il precedente giudizio, che implica la disponibilità a raccogliere la sfida del populismo, da considerare non come ideologia (il populismo non è un’ideologia né mai lo è stato, semmai è una mentalità e una tecnica di comunicazione e di mobilitazione politica) bensì come la modalità che il conflitto sociale assume nell’attuale contesto storico – una modalità da attraversare per proiettare il movimento verso obiettivi e livelli di coscienza politica più avanzati.

Tra l’altro Barile coglie giustamente le risonanze “neo giacobine” del mio discorso: decenni di guerra di classe dall’alto hanno distrutto rapporti di forza, forme organizzative e culture del proletariato, per cui si tratta in primo luogo di ricostruire margini minimi di democrazia. Detto altrimenti: la ripresa della lotta di classe passa dalla rivolta dei citoyens contro il regime liberale.

Nella seconda parte della sua lunga recensione, esprime invece perplessità nei confronti di due aspetti, che considera inediti rispetto ai precedenti lavori, che a suo avviso segnerebbero un salto di paradigma tale da interrompere ogni possibilità di dialogo – sia pure critico – con le sinistre. Forse ha ragione, ma, dal momento che le sue argomentazioni restano nei confini di un dissenso teorico motivato e civile (lontano da certe sgangherate denunce della mia presunta svolta “rossobrunista”) gli devo una risposta.

I due nodi “incriminati” sono di natura diversa. Il primo è politico-economico e si riferisce alle modalità con cui pongo la questione nazionale al centro della battaglia democratica contro il capitalismo globale: Barile mi accusa di applicare senza mediazioni il vecchio modello delle lotte anticoloniali alla contraddizione fra Paesi centrali e periferici in Occidente. Il secondo è filosofico e riguarda la mia critica del “modernismo progressista” che caratterizza da sempre la cultura marxista, a partire dallo stesso Marx, una critica, sostiene Barile, che mi collocherebbe al di fuori di ogni possibilità di superamento dell’esistente. Nelle righe seguenti sosterrò brevemente: 1) che la prima critica è falsa, nella misura in cui sorvola sugli argomenti teorici con cui sostanzio le mie tesi; 2) che la seconda è invece pertinente, nel senso che sono effettivamente convinto, all’opposto di Barile e dei marxisti più o meno “ortodossi”, che l’eredità del modernismo progressista contribuisca a negare alle sinistre ogni chance di produrre un reale cambiamento dello stato di cose esistente.

Partiamo dal primo nodo. Lo schema centro-periferia teorizzato da autorevoli economisti marxisti come Wallerstein e Arrighi, secondo Samir Amin (altro pezzo da Novanta del pensiero marxista) non funziona solo per il rapporto fra potenze imperialiste e Paesi ex coloniali, ma anche fra Paesi forti e Paesi deboli del campo capitalista occidentale. Del resto Amin riformula lo schema del conflitto fra ex imperi coloniali ed ex colonie a partire dalle mutazioni del sistema mondo successive alla crisi degli anni Settanta, e lo considera applicabile anche al conflitto fra centro e periferie europee perché il capitalismo globalizzato e finanziarizzato non è più associabile alle vecchie classi borghesi. La marxiana borghesia non esiste letteralmente più, spodestata da élite globali sostenute da strati neoborghesi (che Piketty valuta attorno al 30% della popolazione occidentale attiva) in posizione subordinata (creativi, operatori dei media, quadri di impresa, nuove professioni, percettori di rendite mobiliari e immobiliari, ecc.). Questo blocco ha tutto l’interesse di conservare un mondo aperto ai flussi di merci, capitali, servizi e persone e professa quindi un’ideologia cosmopolita, progressista sul piano dei diritti civili, reazionaria sul piano dei diritti sociali. È un blocco sociale che vota compatto a sinistra (il che non è affatto un trascurabile dato sociologico, come sostiene Barile) e usa la neolingua politicamente corretta come arma contro le rozze masse popolari degli “sdentati” (Hollande) e dei “dementi” che votano Trump (Bifo).

In questa guerra fra centro e periferie sociali e geografiche, che si svolge anche all’interno dei singoli Paesi (vedi le ricerche del geografo francese Guilluy che ho recensito su queste pagine), le seconde hanno interesse a recuperare una cornice di sovranità nazionale che è l’unica a garantirgli la possibilità di strappare migliori condizioni di lavoro e di vita, diritti, livelli di reddito, ecc. È la battaglia per andare verso ciò che Amin chiama delinking, cioè quello sganciamento dal mercato globale in assenza del quale non è pensabile nessun balzo dalla lotta per la democrazia alla lotta per il socialismo.

Passiamo al nodo filosofico. Ebbene sì, io penso – in sintonia con Walter Benjamin, con l’ultimo Tronti e molti altri – che non sia vero che gli orrori della modernità (guerre mondiali, regimi totalitari, annientamento di intere culture e forme di vita, tecnologie distruttive di ambiente, esseri umani e mondi vitali) sono tali perché “la modernità è stata troppo poco moderna”, come scrive Barile, ma perché l’idea di modernità e progresso sono immanenti al modo di produzione capitalista e alla cultura liberale, e ogniqualvolta le classi subalterne hanno tentato di appropriarsene hanno ottenuto l’unico risultato di rafforzare l’avversario. L’idea che il superamento del capitalismo sia inscritto nelle “leggi” della storia, l’esito necessario dello sviluppo delle forze produttive, oltre che smentita degli eventi empirici, è un residuo ideologico in cui convergono evoluzionismo ottocentesco e metafisica hegeliana. Sono convinto, con David Harvey, Nancy Fraser e altri, che le chance di rottura e superamento non siano interne, immanenti, al modo di produzione, bensì esterne: si collocano al confine fra il modo di produzione e le relazioni sociali, le forme di vita, le identità soggettive che il capitalismo deve costantemente cercare di colonizzare perché da solo non è in grado di garantire la sua riproduzione allargata (rileggere Luxemburg e Polanyi).

In conclusione: la lotta di classe è qualcosa di assai più ampio e complesso della vecchia lotta (posto sia mai esistita in questa forma “pura”) fra operai e borghesi.

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